Una band italo-libanese invitata a suonare nel carcere di massima sicurezza di Rhoumieh, vicino a Beirut. Un’esperienza che lascia il segno, raccontata da uno dei componenti del gruppo, i Kabìla.
Cristiano Rossi nel suo Un Oud dietro le sbarre (Aulino Editore, collana Coup de Foudre) riesce a far vivere al lettore le emozioni di quel giorno, fatto di uomini condannati che vivono attraverso la musica un attimo di respiro e di libertà.
Innanzi tutto chi sono i Kabìla?
I Kabìla sono una band italo-libanese, con base ad Arezzo, che propone una contaminazione di lingue e suoni, tra oriente e occidente. Cantiamo in arabo, italiano e inglese, accompagnati da strumenti etnici ed elettronici, creando una miscellanea di sonorità che sono un mix di rock, progressive, world, pop.
Una musica che non teme le contaminazioni, anzi, le porta a valore, unendole insieme. Abbiamo da poco pubblicato il nostro quarto cd, “Life”, un concept album pubblicato da CNI e Materiali Sonori.
Come è nata la possibilità di suonare nel carcere di Roumieh?
Dopo essere già stati in Libano, nel 2012, ci hanno invitati nuovamente, questa volta ad animare un progetto con i detenuti del carcere di Beirut, all’interno di un intervento di aiuti e sostegno della cooperazione italiana, per migliorare le condizioni di vita e strutturali del carcere della capitale libanese, che ospita oltre 1000 detenuti, tra minorenni, donne, malati mentali e jihadisti.
Bob Marley diceva che la musica può rendere gli uomini liberi. L’esperienza con i detenuti in Libano, lo conferma?
L’esperienza umana e musicale che abbiamo vissuto a Roumieh è stata potente, unica, irripetibile. Siamo riusciti a creare un momento di libertà e “liberazione” per 180 ragazzini minorenni reclusi.
All’inizio del concerto i ragazzi erano tutti seduti sul piazzale, così come ordinato dalle guardie carcerarie, poi, ad un certo punto alcuni si sono fatti coraggio, si sono alzati ed hanno cominciato a ballare con un misto di gioia e stupire, loro, insieme a tutti i responsabili del carcere.
Nel racconto Un Oud dietro le sbarre narri quella giornata speciale. Ma a te, dentro, che cosa ha lasciato?
Mi sento fortunato per aver potuto vivere un’esperienza come questa. Abbiamo potuto conoscere una parte di mondo che è fatta di sofferenza ma anche di speranza.
Quella speranza che cerchiamo sempre di trasmettere con le nostre canzoni: “Yallah!”, andiamo avanti, superiamo le barriere, le difficoltà, ricostruiamoci il futuro.
Ecco, noi speriamo che questi ragazzi, siriani e libanesi, che hanno vissuto nella loro esistenza tragedie indicibili, possano ricostruirsi una vita ed un futuro nuovi.
Qualche mese dopo il nostro concerto è poi avvenuta l’inaugurazione della struttura realizzata coi fondi della cooperazione: in quell’occasione Ahmed, il detenuto dell’area dei malati mentali, con cui ho vissuto l’esperienza che narro nel racconto, ha suonato con il suo oud di fronte a responsabili e giornalisti.
Pensare che questa persona sia potuta rifiorire anche grazie al nostro incontro è, forse, uno di questi semi di speranza.