To be or not to be

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“Che cos’è il cinema?”, così si interrogava Bazin, noto critico francese. Secondo Bertolucci il cinema sta attraversando un cambiamento radicale, perdendo tanto della sua unicità: dovremmo ricominciare a domandarci che cosa sia il cinema.

To be or not to be di Ernst Lubitsch, con Carole Lombard e Jack Benny, è tornato nelle sale in versione originale restaurata con sottotitoli in italiano. Un film la cui elevata qualità e originalità è evidentemente innarivabile per un’opera contemporanea.

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La storia è questa: una compagnia teatrale polacca tenta di mettere in scena il dramma Gestapo, ma la censura tedesca blocca il debutto. Si ripiega sull’Amleto, interpretato da Josef e Maria Tura (Jack Benny e Carole Lombard). Il monologo “To be or not to be” (da cui il titolo) diventa il tema di equivoci, inganni, messaggi amorosi e situazioni altamente paradossali. Teatro e guerra si fondono al ritmo inarrestabile di battute il cui oggetto è il nazismo.

E’ un film sul nazismo dalla temporalità sorprendente: girato tra novembre e dicembre 1941, è uscito il 6 marzo 1942, durante l’offensiva nazista e l’inasprimento degli atteggiamenti di repressione tedesca nei confronti di ebrei e popoli slavi. Un tema oggi trattato dal cinema  con successo grazie al privilegio della distanza (La vita è bella, Schindler’s list, Train de vie, Inglorious Basterds, etc.): ma sopratutto grazie alla possibilità di far leva sul desiderio di catarsi universale rispetto all’unico tabou sopravvissuto al Novecento, l’olocausto, il principio del male e dell’umanità perversa. To be or not to be non è stato accolto con grande clamore negli anni 40, momento in cui la pelle vibrava ancora al rischio dell’incertezza rispetto all’esito della guerra e alla minaccia nazista. La leggerezza di questo film illuminato e troppo moderno è considerata ai tempi sconveniente, oggi è necessaria. Attualmente To be or not be e Il grande dittatore di Charlie Chaplin, girato tra 1938 e 1940, sono considerati le due più grandi commedie sul nazismo.

Non è un caso che Quentin Tarantino abbia scoppiazzato Inglorious Basterds proprio da questo film: le dinamiche, le atmosfere sono identiche, certo i nazisti vengono ingannati in un cinema e non in un teatro come in Lubitsch. E la donna, l’attrice-spia verrà sacrificata da Tarantino, sacrificata al suo genere.

Perché la sceneggiatura del film è considerata una delle migliori della storia del cinema? Lubitsch attua un’intermedialità sapiente fra teatro e cinema. Costruisce ogni scena sulla base di un’astuta coordinazione degli elementi. Il cinema gli consente di far esplodere la topografia tradizionale del teatro: scena, platea, sipario, corridoi, scale, loggione cambiano senza sosta, spostando sempre altrove lo spettatore o lasciando fuori campo ciò che è mostrato ordinariamente. La gran parte delle azioni, delle scene, si aprono su una porta: una porta aperta su una scena fissa di forma cubica, un ideale palco, il luogo di svolgimento dell’intera sequenza ( si pensi al momento in cui il finto Dott. Siletzky entra nell’ufficio del colonnello Ehrhardt, o all’ingresso dell’attrice Maria Tura nella camera del Dott. Siletzky ). La porta è l’elemento che annuncia l’ingresso di un eroe, di un attore, nel suo tentativo di rivolgere completamente le sorti di una situazione potenzialmente mortale. Lo spettatore è il funambolo di ogni scena: avverte l’estrema leggerezza del lavoro dell’attore e la previsione di un rischio fatale avvolto ed evidenziato da questa leggerezza. Ogni scena è uno stare in bilico tra riso e dramma: il pubblico ha l’estrema necessità di ridere per scongiurare la possibilità che l’attore perda la partita. Lubitsch crea e soddisfa questa necessità.

La modernità di Lubitsch è da ritrovare nel nuovo spazio occupato dallo spettatore: tutto quello che accade è rivolto a lui, deve essere completato dal pubblico. L’equilibrio e la sapienza della regia si basano su una disuguaglianza cognitiva tra spettatore e personaggio. Le situazioni paradossali e ironiche sorprendono nel loro essere rigenerate ogni volta da questa disuguaglianza, un equilibrio necessario. Racconto, scenografia e immagine si fondono per questo scopo.

La grandezza e l’eternità delle parole di Shakespeare dell’Amleto e de Il mercante di Venezia sono impiegate magistralmente dal regista che le calibra, le muove per disegnare la storia e i significati, per decidere il carattere dell’umanità, nell’universale e nel particolare delle azioni. La scelta per l’azione, la scelta per “essere”, per “vivere” è quella degli attori della compagnia che decidono di recitare per vincere e non di praticare la violenza gretta e infantile del nemico. La scelta di “essere” è quella del regista, che incide nella storia la sua commedia eterna, sfiorando l’assoluto.

Lubitsch, maestro del cinema, è nato a Berlino nel 1892 nell’ambiente artigiano ebraico. Il suo incontro con Max Reinhardt, il suo gusto per il teatro e il debutto al cinema per arrotondare a fine mese, sono per lui le prime tappe della scoperta di una vocazione per lo spettacolo. Tra le due guerre viene chiamato a Hollywood, dove si trasferisce. A partire dall’esperienza transoceanica si dedicherà a film a tema politico.

Rispondendo ad un critico a proposito di To be or not to be, il regista ha affermato:  ”Ciò su cui ho fatto satira in questo film sono i nazisti e la loro ridicola ideologia. Ho satirizzato l’atteggiamento di alcuni attori che rimangono tali indipendentemente da quanto pericolosa la situazione possa essere, credo questa sia un’osservazione evidente. Può essere discusso se la tragedia della Polonia descritta realisticamente in To be or not to be emerga in modo satirico. Credo sia così e così crede il pubblico che ho osservato durante la proiezione del film;  ma questo è oggetto di dibattito e ognuno può avere la sua opinione, tuttavia è certamente tutt’altra cosa rispetto al regista di Berlino che si diverte con il bombardamento di Varsavia.”

Questo film è il punto di partenza per ricominciare ad interrogarsi su cosa sia il cinema.

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