Dopo l’anteprima in Uruguay, al FIDAE Festival Internacional de Artes Escénicas, uno degli eventi teatrali più importanti del Sud America, The Global City, il nuovo lavoro di Instabili Vaganti co-prodotto dal Teatro Nazionale di Genova, El Florencio, Festival FIDAE 2019, debutta in Italia con un coro scenico di sette giovanissimi attori e danzatori, in prima nazionale, al Teatro Nazionale di Genova, dove replicherà fino al 12 ottobre. Il progetto di produzione, vincitore del bando “Per Chi Crea” promosso dal Mibac e gestito da SIAE, per la regia di Anna Dora Dorno e la drammaturgia originale di Nicola Pianzola, nasce da un lungo lavoro di ricerca sulle megalopoli attraversate dalla compagnia durante le numerose tournée mondiali, come è testimoniato assai ampiamente e con eccellente rigore scientifico nel sito stesso della compagnia, assai utile per capire e scoprire la preparazione e soprattutto la dedizione di questi artisti al loro mestiere.
Incontriamo i due eroi moderni, Nicola e Anna Dora, che come due figure Ariostesche (il link fra il Calvino delle Città invisibili e il Furioso è dietro l’angolo) attraversano coraggiosamente con la loro creatività una geografia variegata e fantasiosa, riportandone a noi un resoconto sublimato e trasfigurato.
Come dialoga con la ricerca contemporanea o precedente? Penso a Tango glaciale di Mario Martone o alla sperimentazione e alla ricerca di Emma Dante o Pippo Del Bono…
Nicola: Ho partecipato a un progetto di Pippo e ci siamo ritrovati in alcuni festival in paesi lontani.
Global City sintetizza i linguaggi già sperimentati. È la città ideale che abbiamo trovato e vissuto nei viaggi ma anche nella ricerca teatrale di questi anni. Però in 15 anni di compagnia portiamo avanti un lavoro quotidiano sull’arte dell’attore e del performer che è molto personale.
Forse siamo stati contaminati da alcune esperienze incontrate soprattutto durante i primi anni: artisti, maestri di un teatro di matrice fisica e con esperienze apparentemente opposte. Ma si trattava di aesperienze legate ad vanguardie storiche poi fuse in un’unica ricerca, la nostra, pensata e creata sul performer che dialoga con mezzi differenti, come video, musica, suono, luci… una sorta di teatro totale. Si tratta di un’opera d’arte vista da più punti di vista. Per questo sfuggiamo ad alcune categorie. A volte ci scambiano per teatro danza ma non siamo soltanto coreografi.
In che modo avete concepito il rapporto fra la vostra esperienza e la scrittura scenica?
Nicola: Il lavoro nasce da un testo scritto da me: nato dall’azione, dal processo creativo in cui sono entrato. Legato ai ricordi, sviluppati da Anna Dora che agisce in scena per tirare fuori l’azione e l’interazione. Si tratta di un testo in tre lingue perché alcuni ricordi nascevano nella lingua di un determinato paese: italiano, spagnolo e ingese. Allo stesso tempo il testo è la linea guida della messinscena. I ricordi, tradotti in quadri con immagini e suoni o altri stimoli, sono poi stati attraversati dagli altri performer.
Qual è il nucleo generatore di una idea o di un progetto di spettacolo?
Anna Dora: C’è sempre un rapporto fra dimensione personale e una più universale che ci consente di traslare l’esperienza in un ambito più ampio, quello che poi che arriva al pubblico. In Made in Ilva si tratta di organicità e del suo contrario che è generato dal lavoro. Questo è stato l’inizio, poi siamo rimasti coinvolti nel tema dell’Ilva, anche per la mia origine.
Quasi sempre si parte dalla necessità personale di raccontare qualcosa a cui siamo legati che poi incontra varie altre sfaccettature. L’ Ilva è come altre fabbriche o situazioni che possono generare alienazione o inquinamento in senso più ampio. Lo stesso accade anche qui, come in altri progetti.
Che aspetto del linguaggio privilegiate?
Anna Dora: Sicuramente l’aspetto fisico, la fisicità dell’attore. Combinato con quello visivo. Anche per la nostra provenienza: il Circo e la performance per Nicola, le arti visive per me.
Come è giocato, è il caso di dire, il tema del biologico e dell’artificiale?
Nicola: Sostanzialmente quando ci immergiamo in queste megalopoli sentiamo di essere un corpo che attraversa tutta una costruzione non biologica, seppure nata dall’uomo. Una contrapposizione forte. In questo progetto è più forte il contrasto fra identità e massa, spersonalizzazione, alienazione. In alcuni passaggi, ad esempio, gli smartphone diventano piccole finestre virtuali in cui ci nascondiamo, poi maschere per i performer…
Anche il contrasto fra analogico e digitale è una chiave: noi siamo una generazione a cavallo, ma dialoghiamo con una generazione completamente digitale. Nel dialogo nasce una ricerca e un viaggio.
Il tema biologico ricorre molto nel nostro lavoro, come anche in Made in Ilva. Un po’ accade anche qui nel paesaggi urbano che proponiamo.
L’uomo che propone i ricordi chi è? Uno scrittore? Un’anima immortale? Tutta l’umanità?
Anna Dora: È un simbolo, anche se in realtà nasce come individuo reale, che noi abbiamo incontrato. Un venditore nelle metropolitane di Città del Messico. Vendono un po’ di tutto… oltre ai ricordi. Noi abbiamo preso spunto da questo personaggio che incarna l’emarginazione per rendere l’idea di un ruolo al margine di tutto, della città e della società. Ma proprio perché è a margine, riesce ad avere una visione dall’alto. Un po’ un angelo caduto, personaggi che si ritrovano nelle città, ma che non riescono a viverle perché gli stessi stimoli urbani sono spesso anche crudeli.
Un’anima che vorrebbe custodire qualcosa in più: i ricordi sono preziosi, ma vengono svenduti. Il mondo va veloce, per cui anche i ricordi si consumano e svaniscono, perdendosi. Le foto oggi non hanno più il valore di una volta. È come se ci fosse una nostalgia di un passato e un futuro, dimensioni che oggi sembrano non esistere più perché si vive molto per il presente.
Il punto di vista, alla fine, resta positivo o negativo sul tema della città?
Nicola: La scelta resta allo spettatore. Riportiamo attraverso i sensi esperienze vissute e trasfigurate, partendo da immagini e situazioni. Ma noi non le giudichiamo. Lo spettatore si può ricollegare, anche in base alla propria esperienza, fatta magari in epoca diversa nella medesima città, ma con visioni diverse, e poi decidere. Per esempio noi raccontiamo di un episodio particolare in Messico (in una zona vittima del narcotraffico) in cui abbiamo realizzato un progetto in un aereo abbandonato, ma siamo stati interrotti dalla polizia, forse perché il teatro era visto come pericoloso. Ma l’esperienza non la giudichiamo, la trasfiguriamo, la proponiamo al pubblico.
A volte può emergere una critica sul confine burocratico che limita l’espansione delle proprie esperienze in altri luoghi. Non c’è mai un giudizio, ma ci sono sensazioni ed emozioni che scaturiscono dal nostro racconto sinestetico. C’è molta evocazione, quella sì, anche di icone delle megalopoli e quello forse può spingere il pubblico a giudicare. Forse.
Quali sono gli altri progetti che ad oggi vi vedono coinvolti?
Nicola: Abbiamo concentrato tutte le nostre forze su questo. Anche per la grandezza della produzione e per la complessità tecnica. Siamo una squadra di 15/20 persone. Ci sono viaggi e tournée per altri progetti, con Made in Ilva saremo in Svezia e nel sud del Cile. Poi abbiamo un altro progetto in progress “Il canto dell’assenza” su cui stiamo lavorando. Insieme ai nostri progetti di workshop che fanno parte della nostra produzione e ci fanno incontrare altri artisti e performer. E poi c’è il nostro Festival “PerformAzioni” (a Bologna in maggio) che è un momento di incontro, di riflessione e di formazione globale.
Se doveste scegliere una sola città ideale, quale sarebbe?
Nicola: Essendo in questo processo di fusione delle città forse non ne basta una… vorrei mangiare coreano una sera, poi essere nell’atmosfera di Città del Messico la mattina dopo… mi sento come in una città ideale che però vive nella fusione di città diverse fra loro. Cambia come cambia l’immaginario della nostra città. La città globale, in fondo, è un insieme di ricordi, culture, desideri.
Ph: Andrea Bastogi, Manuela Porchia, L. Filippi