Dal 30 settembre è sbarcato su Netflix “The Boys in the Band”, dramma controverso che parla al passato, presente e futuro.
Siamo a New York, a casa di Michael, fervente cattolico e dichiarato omosessuale. Qui un gruppo di amici si riunisce per festeggiare il compleanno di uno di loro, Harold. Tuttavia la petulante canzoncina di “Tanti auguri a te” non è la cosa peggiore della serata. Inaspettatamente arriva anche Alan, un vecchio amico di Michael, conservatore eterosessuale ignaro dell’omosessualità di tutti i partecipanti alla festa. Tra fiumi di alcol, i sette amici si scambiano battutine sempre più taglienti che in fondo però nascondono un profondo cameratismo. Finché poi Michael propone un gioco: telefonare all’unica persona che si è mai veramente amata. Durante la serata, questo gioco ad alto rischio porterà a galla segreti e verità toccanti troppo a lungo celate.
“The Boys in the Band” nasce come piéce teatrale dal drammaturgo Mart Crowley e provoca scandalo fin dal suo debutto nel 1968. E non solo perché parliamo di una delle prime commedie di Broadway a trattare apertamente temi omosessuali.
Ieri come oggi, molti criticano la rappresentazione di personaggi omosessuali a volte troppo eccentrici e stereotipati. Tuttavia, “The Boys in the Band” tratta la psicologia dei personaggi come suo tema principale. Un esempio lampante è lo stesso Michael, la cui vita è una facciata.
I vestiti costosi non li ha mai pagati, i capelli sapientemente pettinati nascondo un’incipiente calvizie e c’è qualcosa di ancora più profondo che nasconde dentro di sé. E così si costruisce una corazza portando gli altri a mostrarsi vulnerabili coinvolgendoli in un gioco spietato.
Inoltre, il resto della critica ritrova nei sette amici un ventaglio di personalità eterogenee, ognuna col proprio bagaglio di gioie e traumi legati a religione, etnia e sessualità. Anzi, il gruppo di amici parrebbe incarnare la varietà umana tipica degli Stati Uniti distruggendo perfino qualche luogo comune. Per esempio è da notare il personaggio di Hank, sobrio insegnante, divorziato dalla moglie per poter vivere la propria omosessualità.
In un’intervista del 2009, il giornalista americano Michael Musto ha dichiarato: “I problemi che la comunità gay deve affrontare sono sempre gli stessi. […] Ogni diritto che si ottiene è accompagnato da paura e oppressione. Quest’opera mette in risalto le persone come individui. Non possiamo essere imbarazzati per qualcosa che riflette il tempo in cui è stato scritto. Questa è una commedia piena di tagliente spirito in cui i personaggi si distruggono l’un l’altro. Tuttavia, lo fanno in un modo che mostra quanto si trovino a loro agio tra di loro e quanto siano affini, perché fanno parte della stessa comunità. […] Credo che la fine della commedia rappresenti una condanna al fatto di dover nascondere la propria sessualità”.
Non è quindi da sottovalutare la scelta della regia con Joe Mantello né del cast, formato da grandi nomi del teatro o del cinema quali Jim Parsons, Matt Bomer, Zachary Quinto, Andrew Rannells, Charlie Carver, Robin de Jesús, Brian Hutchison, Tuc Watkins e Michael Benjamin Washington. Il fatto che questi talentuosi artisti siano tutti dichiaratamente gay crea una chimica vincente nel film e manda un messaggio sociale molto importante.
La recitazione è spumeggiante, ma gli attori sanno anche dare prova di una spiccata vena drammatica, molto credibile e mai banale. Inoltre, grazie alla sua grande esperienza teatrale, Mantello sfrutta i mezzi della trasposizione televisiva giocando con la telecamera in modo originale. Così facendo ci permette di cogliere tutti quei dettagli di sottofondo carichi di significato che a teatro avremmo perso.
Alcune sottotrame vengono lasciate in sospeso ma ciò rappresenta l’incompiutezza della vita reale, la quale non svela mai tutti i suoi misteri
Di vitale importanza nella commedia è anche la cornice storica. Gli anni Sessanta erano tempi di rivoluzione, negli Stati Uniti così come in Italia. Prima di allora erano già sorte organizzazioni pubbliche omosessuali e la rappresentazione mediatica della comunità omosessuale stava aumentando.
Alla fine degli anni ’60, crescevano i movimenti contro la segregazione razziale, il movimento in difesa dei diritti LGBT, quello femminista e molti altri.
Ci furono grandi sconvolgimenti sociali in molte aree, comprese le opinioni sui ruoli di genere e sulla sessualità umana. E si arrivò ad apici come quello delle rivolte a Stonewall, appena un anno dopo il debutto di “The Boys in the Band”.
In conclusione, credo che “The Boys in the Band” sia un’opera dalle mille sfaccettature artistiche, psicologiche e storiche. Uno spettacolo brillante e senza tempo, che parla al pubblico di ieri così come a quello di oggi.