Aprono al Teatro Vascello la “Personale” dedicata a Fortebraccio Teatro questi Giganti della Montagna, che della forma pirandelliana hanno perduto la verosimiglianza ma non la struttura globale e il senso delle parole.
Sebbene, all’inizio, il testo appaia più come uno stupefacente cortocircuito sonoro che Gianluca Misiti ha costruito, nota su nota, rumore su rumore, alla perfezione, in collaborazione anzi in interconnessione con il regista-factotum Roberto Latini e con le fondamentali luci di Max Mugnai, addentrandosi risulta più chiaro il grande e profondo lavoro operato anche sul testo e, di conseguenza, sui personaggi, che Latini accentra su di sé quasi completamente. Li differenzia con dettagli interpretativi, ma anche grazie a tutto l’apparato tecnico che è parte integrante dello spettacolo: è infatti tramite i numerosi microfoni che è possibile ascoltare voci differenti e lontane, apparizioni sonore violente in confronto alla voce nuda.
Una concezione drammaturgica, dunque, come una partitura per “numeri”, che declina i diversi sentimenti di volta in volta presenti nelle singole scene in maniere altrettanto diverse, mentre è l’attore-demiurgo che su di essi viaggia e si sdoppia, si moltiplica. Si smontano gli orpelli della verosimiglianza, ma i punti salienti del dramma restano immutati: i simboli dell’arte scenica tradita, la critica a certo modo di intendere il teatro, la figura salvifica e allo stesso tempo maledetta del poeta, l’elemento creativo come difformità, la stessa diversità pagata con lo scotto della solitudine.
Tutto sembra avere inizio dalla paura.
In effetti il termine “paura” è impiegato comicamente anche al principio del testo originale e, al tempo stesso, alla fine, ma in maniera molto più drammatica e indefinita. Qui però si ha l’impressione assai più netta che quanto stia avvenendo sia una sorta di ritorno ciclico ed eterno, cui sono condannati tutti. Latini anima questo ciclo proprio come se fosse già alla sua conclusione, come se i giganti fossero in arrivo, come se dovessimo aspettarci una tragedia da un momento all’altro. Quello che nel testo è un espediente per rappresentare umoristicamente l’incapacità di fare paura di un gruppo di circensi ai margini del mondo, diviene qui quasi un’analisi interiore dello stesso sentimento, mentre le battute degli scalognati passano tutte per la voce di Latini, multiforme come l’ingegno di Ulisse.
Quello che attira più di tutto Latini, però, è l’aspetto del “non finito” del testo pirandelliano, come sottolinea nelle stesse note di regia. Questo gli permette di mantenere tutto lo spettacolo in uno spazio-tempo indefinito anch’esso, in cui i riferimenti restano simbolici, in cui il gesto prende forza proprio perché non è realistico, ma quasi magico. Eppure, nonostante la sospensione, le connessioni con i testi fondanti del teatro di Pirandello sono tante – basti pensare ai Sei personaggi, ma anche alla stessa Favola del figlio cambiato – e ciò permette di considerare questo complesso mito come un testamento assai più dettagliato di quanto non appaia. Un testamento rimasto incompiuto perché l’Arte stessa, come la vita, subisce delle “battute di arresto”, ma proprio per questo risulta adatto – anzi adattissimo – al lavoro che Latini concepisce. I Giganti pirandelliani non sono sviliti ma piuttosto esaltati e trasportati in una dimensione 4.0, una nuova realtà per un nuovo millennio, dove quello che conta è il messaggio e non solo la fedeltà al testo.
Il rischio di definire qualcosa che non vuole definirsi, per scelta esplicita del creatore, potrebbe snaturare lo stesso tentativo di evocazione che è alla base di questo progetto complesso e stratificato. Tuttavia la ricerca delle cause, aristotelicamente parlando, che hanno portato al fenomeno dovrebbe permettere di scoprire la misura del lavoro intrapreso da Fortebraccio Teatro in questa occasione e, in maniera più ampia, nel suo percorso artistico più che ventennale. Non si vuole, però, in questa sede andare oltre alla semplice lettura dell’evento teatrale mentre altre considerazioni che possono scaturire da essa potranno essere assai meglio interpretate se inserite in un contesto più ampio.
L’uso del “segno” è, infine, la chiave di volta dell’impianto registico de I Giganti della Montagna. Il segno si fa musica, suono, rumore, si fa didascalia, immagine, filmato, poi si disperde nella luce e infine torna ad essere parola. Ma essa non è nobilitata rispetto al resto, bensì è scomposta, in mille altri segni, e integrata alle altre arti. E tutti i personaggi passano attraverso di lei, con fasi chiare in relazione allo spazio scenico. Quest’ultimo, alternativamente delimitato dal velatino – segno anche questo di un teatro della vita o di una vita in teatro – è prima strettamente disegnato dalle luci, per poi allargarsi diventando un campo di grano stilizzato e, infine, restringersi ancora e conquistare, nel finale, una verticalità inaspettata. Le meraviglie che appaiono in uno spazio vuoto, poi, non sono altro che macchinari di scena, pericolosi e deludenti al tempo stesso. Tutto è minimizzato, anche l’effetto scenico è ridotto a “segno”, che resta impresso fortemente nell’animo e nella mente di chi osserva, superando i limiti stessi del linguaggio.
Fortebraccio teatro
I GIGANTI DELLA MONTAGNA
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
con Roberto Latini
video Barbara Weigel
elementi di scena Silvano Santinelli, Luca Baldini
assistenti alla regia Lorenzo Berti, Alessandro Porcu
direzione tecnica Max Mugnai
movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri
organizzazione Nicole Arbelli
foto Simone Cecchetti
produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con
Armunia Festival Costa degli Etruschi
Festival Orizzonti . Fondazione Orizzonti d’Arte