La giovane regista María Silvia Esteve ha preferito introdurre con poche parole la proiezione della sua opera prima, Silvia, in programma la sera di mercoledì 13 novembre.

Silvia non è solo il nome dell’esordiente e talentuosa regista argentina, ma anche quello di sua madre, un soggetto contraddittorio e, per certi versi, affascinante, che il documentario si propone di far rivivere per indagare.

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Prima che le luci vengano spente, María Silvia Esteve ci anticipa solamente che la madre, messa al corrente dalla figlia della sua intenzione di realizzare un documentario sulla sua vita, le ha chiesto scherzosamente una conclusione felice degna di un vecchio film di Hollywood, suggerendo le nozze finali con il famoso attore spagnolo Rodolfo Beván.

Silvia non esaudisce questo desiderio se non in parte, visto che di nozze si parla, ma in apertura, non il conclusione della storia che María Silvia Esteve ci vuole raccontare.

Le prime immagini sono quelle del matrimonio di Silvia con Carlos, futuro padre della regista e di altre due sorelle. I materiali di archivio familiare originariamente in VHS che strutturano l’opera permettono di spiare nell’intimità della famiglia Esteve, ma la neutralità del documento subisce fin da subito la deformazione del punto di vista di chi narra. Silvia è una sposa bellissima e le immagini dei festeggiamenti che seguono la celebrazione del matrimonio sono accompagnate da una musica classica fiabesca e subiscono l’incursione di scene tratte dal film Via col Vento di Victor Fleming.

Questa distorsione dei documenti d’archivio crea un’atmosfera angosciante e sinistra che sembra suggerire che i fatti sono solo dei contenitori che assumono la forma dei sentimenti che li riempiono.

La voce fuori campo della regista e delle sue due sorelle fungono da contraltare delle immagini di vita familiare che propongono una versione parziale, se non illusoria, della vita della madre.

Ciò che emerge dal racconto delle figlie è che il matrimonio di Silvia e Carlos è infelice e l’insoddisfazione dei due coniugi sfocia molto spesso in una violenza alla quale le figlie sono costrette troppo spesso ad assistere.

Da questa sfida forse un po’ perversa tra le immagini di archivio e la testimonianza della regista e le sue sorelle emerge inaspettatamente un sottofondo poetico che scende in profondità nel rapporto tra madre e figlia.

“In una delle ultime conversazioni che abbiamo avuto per telefono, lei mi disse di smettere di essere arrabbiata, che dovevo godermi la vita com’era, di smettere di dare la colpa agli altri e di andare avanti e che lei si pentiva di non aver fatto questo durante la sua vita.”

Queste sono le parole con le quali la voce fuori campo della regista introduce sua madre e forse racchiudono al loro interno il sentimento dell’intera opera: un desiderio di comprendere, che significa raccontare un’altra volta e sempre in modo diverso, una storia.

“Per quanto cerchi di riguardare la storia, non sono mai riuscita a capirla”

è una delle ultime battute di María Silvia Esteve, ricordandoci che la bellezza può nascere dai conflitti più intimi ed irrisolti e scavare nelle profondità dei primi legami che stabilisce l’essere umano.

Silvia è stato già premiato presso numerosi festival internazionali, tra i quali l’Habana Film Festival, il Docaviv (International Documentary Film Festival di Tel Aviv) e il Buenos Aires International Documentary Festival e ha vinto come miglior progetto presso altrettanti laboratori internazionali.

María Silvia Esteve è stata selezionata presso la Biennale d’arte giovane di Buenos Aires, presso l’IDFA Academy e l’IDFA Summer School 2019,dove ha presentato il suo nuovo progetto in lavoro, intitolato Mailin, che aspettiamo con ansia.

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