Dopo l’anteprima di ieri con la versione restaurata di Tango del Viudo, ha preso il via ufficialmente il Festival del Cinema Ibero-Latino Americano di Trieste.
Ad aprire questa edizione una delle sezioni più amate: Shalom il sentiero ebraico in America Latina, con proiezioni in collaborazione e presso il Museo della Comunità Ebraica, per l’intera giornata di domenica 7 Novembre.
Ringrazio il Rabbino e il Museo per questo camminare insieme
afferma il direttore artistico del Festival Rodrigo Dìaz nel presentare la sezione,
Soprattutto in un momento storico così significativo in cui assistiamo a certi rigurgiti e certe nostalgie pericolose
È importante per chi fa Festival, per chi fa cultura, fare memoria, cosa che già il Festival fa a 360° gradi.
Mantenere un riflettore acceso anche sulle relazioni tra l’America Latina e la Comunità Ebraica, rappresentata in America Latina da milioni di persone.
“Dobbiamo guardare al passato, senza però inciampare perché teniamo la testa girata verso altre direzioni “, chiosa il Rabbino Haddad prima di lasciare spazio ai film della sezione.
No hay regreso a casa
Tra le pellicole presentate, interessante, sia per il linguaggio scelto per il documentario, che mescola espressione fotografica e una sorta di quaderno degli appunti; che per i temi che emergono, è No hay regreso a casa di Yaela Gottlieb.
Yaela è una giovane regista peruviana, classe ’92, radicata a Buenos Aires, laureata prima in Scienze della Comunicazione e poi diplomata all’Università del Cinema di Buenos Aires.
Come già accennato parlando del suo film in visione al Festival, i suoi lavori esplorano la fotografia, il cinema e il video attraverso l’incrocio tra territorio, distacco e (de) costruzione dell’identità.
La Gottlieb, nel film presentato anche al Festival del Cinema di Lima, parallelamente alla ricerca di un lavoro e di un suo posto nel mondo sviluppa una ricerca sul passato, quello di suo padre, Robert Gottlieb.
Robert Gottlieb
Attraverso le ricerche e un dialogo serrato, sia per via telematica che di persona, con il padre, Yaela cerca di ricostruire i vari tasselli di uno stesso mosaico.
La fuga, nel 1958, del padre da Oradea, Romania verso Israele (con tappa in Grecia), il suo arruolarsi e l’esperienza da soldato nella guerra dei sei giorni, combattutasi tra Egitto, Siri, Giordania e Israele.
La perdita della nazionalità rumena, che la figlia tenta inutilmente di richiedere, i dubbi su come il padre viva (e sopravviva) da solo in Perù, dato che le quattro figlie sono all’estero e divise tra Usa, Israele e Argentina appunto.
Ma in ballo non ci sono solo le questioni familiari, c’è la ricerca di cosa sia l’ebraismo: non solo una religione ma un’etnia, un popolo.
La questione sionista e il sentirsi più giudei che peruviani (di vissuto) o rumeni (di nascita)
Nonchè la visione di Israele, che il padre rimprovera Yaela di conoscere solo attraverso una delle due campane.