Sono passati solo 67 anni dalla prima rappresentazione di Billy Budd di Benjamin Britten alla Royal Opera House di Londra e per noi, a Roma, sembra di vivere oggi la stessa emozione.
Il merito è di uno spettacolo straordinario, coprodotto con la ROH e il Teatro Real di Madrid, affidato alla regia di Deborah Warner e alla bacchetta di James Conlon. Il cast è di altissimo livello e tutte le maestranze si sono adoperate al meglio, mentre coro e orchestra hanno dimostrato, una volta di più, l’eccellenza che li contraddistingue.
Su tutti spiccano il Billy Budd del giovane baritono Phillip Addis, il capitano Edward Fairfax Vere, che Toby Spence dipinge con un tocco delicato e struggente, e John Relyea nei panni del malvagio e tormentato John Claggart. Ma vale la pena citare, nel numeroso cast interamente maschile, anche Thomas Oliemans (Mr. Redburn), Zachary Altman (Mr Flint), David Shipley (Lieutenant Ratcliffe) per il loro affascinante affiatamento timbrico e inoltre il Dansker di Stephen Richardson e il sofferto Novizio di Keith Jameson.
Ispirata all’omonimo racconto di Herman Melville, su un libretto di E. M. Forster e di Eric Crozier, l’opera racconta le vicende di una nave da guerra inglese durante gli scontri con la Francia nel 1797. Tutto parte e si ricongiunge al ricordo di Vere, il capitano della nave, che fa rivivere di fronte ai nostri occhi gli avvenimenti di pochi mesi in mare, fra l’arrivo di Billy e la sua sfortunata condanna a morte.
I temi che attraversano la produzione di Britten sono numerosi e complessi, ma qui sembra di poterne isolare due, ben chiaramente delineati: il rapporto con la natura, in questo caso il mare e la nebbia, e i rapporti omoerotici. Questi due temi, in realtà, si compenetrano sfumando l’uno nell’altro e finendo per sovrapporsi: è infatti la forzata vita della nave a creare quei sottili rapporti di velato erotismo e amicizia particolare fra alcuni dei marinai o è una condizione dell’anima che porta a preferire l’amore omosessuale a quello eterosessuale, all’epoca unico socialmente accettato?
È una domanda che Britten forse si poneva in quell’epoca, quando anche la liberale Inghilterra considerava negativamente i rapporti fra persone dello stesso sesso, principalmente uomini (memori della morale vittoriana per cui, al varo delle leggi contro l’omosessualità alla metà dell’Ottocento, solo gli uomini erano vittime e carnefici di “certe perversità”), combattendoli attivamente con le forze di polizia, con le leggi e con il carcere.
Serve ricordare lo scandalo di Oscar e Alfred per capire come alcune idee fossero radicate ancora nella società inglese degli anni 50.
Non è un caso, dunque, che proprio Forster – autore di quel capolavoro di letteratura omoerotica chiamato Maurice, romanzo pubblicato postumo – sia stato coinvolto in questa impresa. Evidentemente egli condivideva con il compositore e con una cerchia ristretta – ma neppure troppo – di amici le stesse inquietudini, le medesime domande.
E l’arte deve dare risposte o generare domande in chi ne fruisce. Per questo oggi noi siamo qui, attenti, pronti, vigili ad ascoltare questo capolavoro del teatro musicale del ‘900, a domandarci, nello stesso tempo, se queste inquietudini, questi sentimenti nascosti e la paura che vengano alla luce siano solo un ricordo oppure siano ancora oggi in azione negli animi di alcuni artisti e, di conseguenza, di alcuni spettatori.
Cosa separa la paura di un amore dal desiderio per l’oggetto d’amore?
Cosa permette all’individuo di affermare liberamente i propri desideri, siano essi concessi o meno dal sistema di regole che lo circonda? Cosa vale la pena di inseguire e di difendere quando siamo persi nella nebbia: l’amore, il desiderio o il principio, l’ideale che porta al sacrificio ma che purifica il desiderio stesso e lo innalza ad un livello spirituale e, dunque, universale?
Seguitiamo a domandarci, soli e sperduti nel mare infinito, in attesa che la nebbia scompaia e si torni a navigare a vele spiegate, ma nel frattempo godiamo della bellezza – musicale e testuale – di un’opera dalla incredibile forza emotiva.