L’opera cinematografica di Joe Wright tratta dal romanzo di Tolstoj “Anna Karenina” incanta.
E’ uno stile ibrido che genera l’incontro tra teatro e cinema a tempi di danza. Cinema, letteratura e teatro sono le tre prodezze fuse in un unico capolavoro che narra della rappresentazione che è la vita. Mossa e generata da istinti, ideali, valori e sopratutto relazioni universali agli altri, al mondo e ai noi stessi la vita si affaccia senza tregua alla morte.
L’intero film è girato in prevalenza in interni, negli Shepperton Studios di Londra dove già sono stati girati film noti quali The Elephant Man, Passaggio in India, Enrico V, Robin Hood – Principe dei ladri e Hugo Cabret.
Un espediente geniale nel suo utilizzo quello del teatro quale ambientazione centrale delle scene del film. Un teatro ottocentesco di cui assistiamo meravigliati alle trasformazioni in sala da ballo, strada, casa, osteria, pista da pattinaggio, terreno per corse di cavalli. Ogni luogo, quelli esposti e quelli nascosti delle parti tecniche, diviene ambientazione per le scene: palco, platea, quinte, graticcio. Sul palco si manifestano nel loro splendore la città aristocratica di San Pietroburgo, quale florido ed elegante centro culturale della nazione, e la satellite Mosca. Quando la cinepresa esce dal teatro è per varcare gli esterni spazi immensi, infiniti della campagna russa, di una natura senza orizzonti: qui inverno e primavera, tempo del raccolto e dell’attesa sono carichi, saturi ed evocano con grazia quadri noti quali Van Gogh, Monet. Le immagini diventano simboli universali dell’esistere poetico perché tragico dell’uomo, la cui essenza è custodita nel romanzo di Tolstoj.
L’uomo fondamentalmente danza e ama, riflette e si strugge.
Un cast tutto europeo, scelta coerente rispetto al soggetto del film. Anna è interpretata dalla forte Keira Knightley , la cui bellezza in questo film appare nel suo essere eterea e dissimulatrice, follemente autodistruttiva e desiderosa di autenticità. Non si può non citare la partecipazione di Emily Watson nel ruolo della Contessa Lydia. Un’attrice che l’età e l’esperienza hanno resa autentica e risoluta: il suo sguardo di ghiaccio comunica senza parole, occhi resi più saggi, ma che non tradiscono lo spirito interrogativo che emanavano in “Le onde del destino”. Jude Law è Alexei Karenin, marito di Anna, adulto stabile,giudizioso e saggio, ministro di San Pietroburgo, i cui affanni sono sorretti da un elevato spirito di riflessione, centratura e magnanimità, una devozione cieca verso la vita e il suo essere sacra e quindi verso l’amore. Jude Law, un attore che ha affrontato ruoli da bello tragico, di cui le nostre attese da pubblico sottolineano il carisma estetico, ma che in questo caso apprezziamo per le capacità drammatiche da patriarca, da uomo tradito e alla ricerca della stabilità.
Il fratello di Anna Karenina, Matthew Macfadyen, è un’anima vivace che non si lascia scappare nuove occasioni di tradimento, mentre la moglie Dolly, Kelly Macdonald, è per l’ennesima volta gravida. Quando Anna si reca a Mosca per convincere Dolly a perdonare il fratello incontra alla stazione lo sguardo di Alexei Vronski, Aaron Taylor-Johnson, un giovanissimo conte promesso in sposa alla giovane Kitty, e ne è affascinata. Kitty è però corteggiata da Levin, di cui rifiuta un offerta di matrimonio. Levin, interpretato dall’irlandese Domhnall Gleeson,è la terra, è la voce spirituale del film: è un proprietario terriero che viene dalla campagna, onesto e mosso dalla sola passione per l’amata, ama interrogarsi e rispettare il tempo: egli conosce i tempi della natura, ma non le prudenze e gli intrighi della società urbana.
Anna si innamora di Vronskij. Non si impedisce di esternare in molte occasioni sociali la propria passione per il giovane. Il marito la invita al pudore e rimane sempre fedele all’unione coniugale, perchè ritiene sia “peccato abbandonarla al suo viaggio nell’autodistruzione”. Gli occhi dell’aristocrazia sono vigili e attenti ad ogni passo giocato “immoralmente” da uno dei propri membri: emblematica la scena-fermo immagine in cui la bellissima Anna, vestita di bianco, come un giglio delicato, viene fissata da rovi secchi, spettatori con binocoli da teatro, come la peccatrice, l’intrusa.
Per Anna ci sono in gioco il figlio, il ruolo di moglie del ministro e di donna rispettabile. La donna non si sottrae all’unione con Vronskij che genera un figlio. A questo punto Anna divorzia dal marito e si abbandona all’amore. Quando lei e l’amato hanno deciso di scappare in campagna, in un momento di solitudine decide di suicidarsi gettandosi sotto un treno.
Anna è il riferimento, il simbolo di una donna dilaniata e in fuga dalle forze della cultura, della società e della religione. Un disordine che annienta è il risultato della lotta tra aspirazioni personali di pienezza nell’amore e le maglie, le spire del proprio ruolo sociale. Anna è il simbolo della condizione umana.
Il film si conclude su scene che invocano speranza. Il giovane Levin, che condivide con la moglie Ketty la proprietà di campagna, lavorando nei campi accanto ai suoi contadini compie una rivoluzione generazionale, sancisce l’uguaglianza del padrone e del contadino nel lavoro. Tenendo in braccio il figlio sorridente dice di aver capito qualcosa di nuovo. Il futuro è giovane e rivoluzionario, perché fondato e determinato da ideali forti, sembra di capire. Alexei Karenin legge un libro in mezzo ad un campo di fiori dove corrono i due figli, il proprio, e la figlia avuta dalla relazione extraconiugale di Anna. Una scena che sa di eternità e ricorda la necessità di poesia e speranza delle scene di The tree of life di Malick. La vita comunque vince.
Gli attori sono caratterizzati da splendidi costumi. L’importanza di tessuti e forme per il film è evidenziata dall’uso della luce. Una luce molto spesso utilizzata in modo teatrale. I colori divengono simboli e maschere del momento che raccontano. Rosso, bianco e nero divengono i momenti, le scelte, le inclinazioni di Anna.
Protagonista di questa rilettura del romanzo russo sono meno le sfumature, le venature psicologiche dei personaggi, quanto le loro danze. Vivere danzando la propria tragedia. Ogni azione, ogni emozione è dipinta da movimenti di danza e catturata in quadri, vere e proprie fotografie.
Un prodotto con una provenienza tutta americana, un film di raffinata fattura che non ha nulla da spartire con altri che lo ricordano come “Moulin rouge” o “Romeo+Giulietta“.
L’opera di Joe Wright non conosce gli psicologismi e la tendenza alle sfumature silenziose del cinema europeo: questo film è una dimensione, un’aurea di sogno, una danza allegra e tragica fatta di immagini, di nascondigli, di movimenti di trasformazione repentini ed inaspettati, una fotografia dei momenti, delle epoche della vita, dei personaggi che abitano le nostre esistenze.
Impossibile non apprezzare la meraviglia creata dal fatto di poter ritrovare nella struttura di un teatro le scene di un film, di poterne percorrerne gli spazi con la cinepresa tra i suoi meandri, nei suoi antri, come a svelare che dietro alle quinte non c’è nessuna vita autentica, ma solo altra rappresentazione.
La vita, nel suo essere fondamentalmente vita sociale, è un’autentica opera teatrale in cui si susseguono tragedie individuali ben mascherate.
O danziamo, o siamo perduti.