Gli esclusi, gli emarginati, i dimenticati, i malati psichiatrici, i detenuti sono gli “ultimi” nelle opere letterarie e anche nella vita. Pino Roveredo, lo scrittore triestino scomparso ieri all’età di 69 anni, era riuscito a raccontarli come pochi prima avevano saputo fare. Una scrittura diretta e incisiva, la sua. Una scrittura che sapeva arrivare dritta al cuore e all’anima del lettore.

Lui stesso era stato un “ultimo”: cresciuto nella Trieste del dopoguerra, aveva infatti conosciuto la miseria, l’alcolismo e il carcere. Fu la scrittura a salvarlo. “Un bisogno fisico”, come lui stesso lo ha definito più volte.

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Il primo a credere in Pino scrittore fu l’editore Valerio Fiandra della casa editrice LINT che nel 1996 pubblicò “Capriole in salita”. Un libro duro che racconta una vita dura, con i genitori sordomuti e in collegio per tanti anni, quelli fondamenti per una crescita armoniosa.

Seguirono altri titoli come: Ballando con Cecilia (2000) e Mandami a dire (2005) che gli valse un Premio Campiello come miglior romanzo dell’anno. E poi: Caracreatura (2007), Mio padre votava Berlinguer (2012) e I ragazzi di via Pascoli (2021).

Dopo gli sbagli, l’alcolismo e il carcere, la “cultura salvifica” è diventata la nuova rotta da seguire.

Anche il teatro era per Roveredo “salvifico”: uno spazio dove le emozioni e le storie potevano arrivare al pubblico in maniera ancora più diretta, senza filtri, soprattutto se a salire sul palco erano i ragazzi tossicodipendenti, oppure i detenuti, tutte persone che per la prima volta potevano sentirsi “dalla parte giusta”. 

Di Trieste, la sua città natale, Roveredo conosceva in particolar modo gli angoli più nascosti e umili che erano i protagonisti del suo impegno politico e delle sue inchieste giornalistiche, dove cercava di dare a voce a chi non riusciva a farsi ascoltare. A dimostrare che non esistono cause perse, ma solo persone che lottano ogni giorno, facendo capriole in salita.

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