liberamente ispirato a Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij
regia Carlo Cianfarini
con Antonio D’Onofrio e Lorena L. Scintu
adattamento e progetto scenico Lorena L.Scintu
Nemmeno un insetto è un interessante adattamento di Memorie del sottosuolo (1864), celebre romanzo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Il lavoro è frutto di un accurato progetto scenico di Lorena L. Scintu con la regia di Carlo Cianfarini, andato in scena dal 7 al 12 gennaio al Teatro Studio Uno di Roma.
Per accedere alla sala dove si tiene lo spettacolo, si deve scendere una rampa di scale e si ha da subito la sensazione di avventurarsi in quel sottosuolo dove il protagonista di Dostoevskij (che sulla scena si sdoppia con i due attori protagonisti Lorena L. Scintu e Antonio D’Onofrio) si riduce a vivere, come una talpa.
Il palco ricorda l’angusta stanza in cui l’uomo delle Memorie si tormentava: una tavola ancora apparecchiata, un letto disfatto su cui uno dei due attori giace preda di un sonno agitato, libri e vestiti poggiati qua e là, un tappeto persiano a terra e un mobile da toletta.
Scintu e D’Onofrio sembrano essere due facce della stessa medaglia: lui in vestaglia e con il viso stanco ci racconta in un monologo il modo in cui non sia riuscito a “diventare nemmeno un insetto”, lei, dalla figura esile, si muove sul palco ricordando a tratti il continuo contorcersi di una coscienza sofferente. Indossa inizialmente una tuta aderente color carne e poi una camicia, simbolo probabilmente di una seconda pelle. Il viso è dipinto di bianco e viene coperto progressivamente da altri colori fino a renderlo irriconoscibile.
Cianfrini, sagacemente, con l’espediente del doppio personaggio porta in scena l’idea della ‘dualità’ dell’animo umano tipica nei romanzi dostoevskiani in cui si agitano conflitti laceranti e visionari.
Il desiderio di sofferenza dell’uomo culmina nell’accidia e nell’inattività che rinchiudono il personaggio nel sottosuolo, lontano dalla vita sociale.
Un encomio va al coraggioso tentativo di adattare per la scena un romanzo così intenso e corposo. Il confronto con autori come Dostoevskij non è mai facile, soprattutto quando ci si imbatte in testi dal grande spessore filosofico come questo. Si rischia di appesantire la resa scenica e di rapportarsi anche con un pubblico non del tutto preparato ‘a ricevere’ così tanto tutto d’un fiato. Non è questo il caso perché l’adattamento fa dei punti chiave del romanzo i suoi punti di forza, restituendo alla platea un’energia straordinaria. La sala non è gremita (appena una decina di spettatori) ma l’atmosfera è intensa: un clima intimo che sembra quello di una confessione come era poi negli intenti dello scrittore russo. Ne deriva una tensione emotiva forte, ai limiti del delirio.
L’attore ci rimanda un personaggio sincero al punto da diventare spudorato, inetto e a tratti insopportabile. Siamo spettatori della sofferenza di un’anima che si mette a nudo e che, diciamolo pure, incarna le nevrosi dell’io. Tutto ciò che accade, non accade per motivi sociali ma unicamente interiori. La sensazione, tornando a casa, è di aver ricevuto quello schiaffo tanto agognato dal protagonista e mai ricevuto che con la sua spietata verità, pone fine a tutte le nostre certezze.