Debutta il 16 marzo Bagliori d’avanspettacolo, il lavoro teatrale scritto e diretto da Patrizia Masi in scena nella sala Moretti del Teatro dell’Orologio. La storia grottesca di un’onorata compagnia di guitti, in bilico tra lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la Liberazione. Lo squarcio di un’epoca, vissuta attraverso i ricordi di un capocomico, che sopravvive all’oblio, ripercorrendo gli anni dell’Avanspettacolo, dei mille stratagemmi per sopravvivere, per procurarsi una scrittura, per coltivare una speranza.
Abbiamo intervistato l’autrice e regista che ci ha raccontato la nascita dell’idea, ci ha parlato degli attori e del suo pensiero riguardo alla condizione del Teatro in Italia
Perché ha sentito l’urgenza di raccontare questa storia?
È storia d’Amore, come tutte le storie che scelgo di raccontare. Questa nasce dalla passione febbrile di andare a scovare le gemme del nostro Teatro italiano: i brani di musica, i monologhi, le macchiette, i racconti di come si sopravviveva alla fame, di come si “rubava” all’altro la tecnica, la battuta, la risata.
Ore ad ascoltare i pezzi di repertorio che al tempo dell’Avanspettacolo e del Varietà gli attori dovevano portarsi dietro come il guardaroba. Io e Mimmo Appetiti passavamo lunghe serate, intere domeniche, a guardarci sto ben di dio. Era il nostro segreto, il tesoro da spartire da fratelli, da cantare insieme. Era il nostro vivere, il nostro ridere sui guai della vita, il nostro abracadabra. E un giorno ci siamo detti “perché non lo facciamo anche in scena? Perché non ci inventiamo la storia di una compagnia di guittacci, malandati, malconci, affamati, al tempo della guerra? E’ andata così. Il primo nostro avanspettacolo è nato nel 2011 al Teatro Italia, si chiamava “Senza nulla pretendere – fuìte, zingari, che arrivano i teatranti!”, poi alla fine del 2013 abbiamo sentito l’esigenza di farne un Corto – Bagliori d’Avanspettacolo – girato come un film muto, in cui le parole si ammutolivano rispetto alla potenza descrittiva delle immagini, della Storia, e ciascuna scena, ciascuna sequenza era montata a partitura musicale, seguendo il fil rouge della musica. Una follia … solo per montarlo ci abbiamo messo tre mesi. Questo spettacolo è omonimo al Corto, ne è la conseguenza onirica e vitale, perché continui a vivere.
In poche parole può spiegare ai nostri lettori cos’è l’avanspettacolo e quanto ha significato per il Teatro.
L’Avanspettacolo era un genere teatrale che veniva inserito nei cinema tra una visione di una pellicola e l’altra, che assomigliava, anche se in forma minore, alla Rivista e al Varietè, terreno di sperimentazione e innovazione continua.
Negli Anni 40, con l’avvento del Sonoro, c’era un proliferare di sale cinematografiche e, per attirare il pubblico, molti impresari pensarono bene di allestire un gustoso intrattenimento d’arte varia, fatto di gag, macchiette, balletti, numeri comici con bonari doppi sensi, e numeri d’attrazione. Le Compagnie erano formate dal Comico, la Spalla, la Soubrette, il Fantasista, la Cantante, il Corpo di ballo, e da altre figure che di volta in volta, se il budget lo permetteva, potevano arricchire lo spettacolo, quali il fachiro, il mago, il contorsionista, l’imitatore, il ballerino di tip-tap. Il pubblico, molto spesso irriguardoso, era sovrano, non lesinava fischi o battute, e gli attori che riuscivano a resistere ai suoi “assalti” e alle sue provocazioni erano in grado di poter affrontare qualsiasi situazione. “L’Avanspettacolo è il punto d’incontro tra il Circo Massimo e il Casino” diceva Fellini.
Nelle fumose sale cinematografiche di periferia questo genere popolare ha caratterizzato un’epoca in cui lo spettacolo si scriveva con la ESSE maiuscola. L’umorismo italiano aveva valori inventivi straordinari in continua evoluzione, una vis comica, e una “vena aurea”, che tutt’oggi ci troviamo come eredità.
Il Varietè, la Rivista e l’Avanspettacolo, che si sono sviluppati nel periodo pre e post bellico, hanno rappresentato la fucina vera e propria di un nutritissimo cast di attori di altissimo livello, che avrebbero poi rappresentato l’Italia nel mondo del Teatro, del Cinema, e delle Arti in generale.
Con tutte le sue insite difficoltà storiche si è potuto dare slancio a quell’ebbrezza, a quella ventata di inebriante euforia, che sarebbero poi sfociate nel “miracolo italiano”.
L’apporto storico-culturale, e non solo, appare del tutto evidente. Che cosa sarebbe stato il Cinema, il Teatro, la Musica, senza Petrolini, Totò, Fabrizi, la Magnani, i De Rege, i Maggio, i De Filippo, i Taranto, Sordi, De Sica, Manfredi, Rascel, Panelli, la Valori, Tognazzi, Vianello, Chiari, la Vitti, Agus, Banfi e tanti, tanti altri ancora?
Il nostro è un umile servizio a quei “mostri sacri”, che hanno dato lustro all’essere italiani, a quel processo unificatore che stava via via completandosi.
Cosa saremmo noi oggi noi senza quell’apporto? Di quale considerazione godremmo a livello nazionale ed internazionale? Saremmo rimasti ancora (e lo dico con somma riverenza) al Melodramma, che pure ci viene dal mondo giustamente riconosciuto. Con lo stesso Verdi, il cui nome veniva altresì usato come … “Vittorio Emanuele Re d’Italia”, nascevano i primi vagiti di quella che poi sarebbe divenuta la nostra Nazione.
Come sempre la cultura affianca, ma più spesso anticipa, la Storia
Ha fatto riferimento ad altre opere per scrivere il testo?
Beh, una cosa la posso proprio dire con orgoglio: il testo non lo sento “il mio testo”, ma è il testo di tutti, di tutti coloro che son venuti prima di me, che gli hanno dato respiro, luce, parola, gesto. Un testo in cui ognuno può mettere del suo. E’ giusto lasciare un’orma, una zampata. Io ci ho messo l’anima, ma qui c’è l’anima di tutti. E poi non mi sarei mai sognata di aggiungere una virgola ai capolavori indiscussi che fanno parte della storia, delle antologie. Abbiamo preso, anzi, rubato, a piene mani, e il bottino – giuro – non era mai abbastanza. Ho saccheggiato il Teatrino della Barafonda, ricostruito in modo strabiliante da Fellini in Roma; ho preso a piene mani da quel capolavoro di Luciano Salce che è Basta guardarla: una miniera di spunti, di miracoli che spaccano il cuore; abbiamo messo a ferro e a fuoco le molteplici interpretazioni di Franca Valeri…. Mi sono lasciata avvolgere nelle lenzuola bianche di bucato della iornata particolare di Scola, da quella pioggia di miracoli….Insomma, noi siamo pulci ladre, che trasportano nelle proprie stive spezie preziose e granellini di pepe pregiatissimo del grande Avanspettacolo, per star bene negli anni di carestia. Il mio desiderio? Che il pubblico conosca e, se possibile, riconosca la fonte e ci spernacchi, che avverta il profumo, la scia lontana di quello che era il vero, immenso, ineguagliabile Avanspettacolo.
Come ha scelto gli attori e come ha lavorato con loro.
Ci sono attori della mia compagnia che lavorano con me da quasi quindici anni, altri da cinque, altri da un anno. Tutti però si sottopongono a una palestra quasi quotidiana, a un lavoro che non concede sconti. Se si vuole arrivare al traguardo, bisogna essere seri. Molti dei miei attori se ne sono andati, perché l’impegno era troppo gravoso. Altri arrivano da me, pensando a quanto sia bello mettersi un bel costume, stare su un palcoscenico, prendersi un applauso. Io sta roba la smonto subito. Il trucco, il costume, vengono dopo, molto dopo. Prima c’è il trucco dell’anima. Si può recitare anche nudi, se si è il personaggio. Si può salire su un tavolo e pensare che sia il più grande palcoscenico del mondo. Fammi sognare, questo chiedo, fammi credere che tu sia vero, che sia tutto vero, portami via, e ti darò la luce e lo spazio che meriti.
Come ho scelto gli attori per Bagliori? Da quanto erano credibili, da come ci credevano. Io scrivo la parte a ciascuno per quello che mi suggeriscono, per quello che mi danno. Ogni personaggio, ciascuna parte è tagliata su misura. Sperduti in un mondo che non li riconosce, che non li vuole più, senza più un ruolo, senza pubblico, spampanati e stralunati, fedeli alla loro passione, alla disperata ricerca di un senso, di qualcuno che li guardi, di un palcoscenico che li abbracci, che dia loro un’identità.
Partendo dall’indeterminatezza, la Compagnia di guitti può essere sbalzata dal mondo dell’oblio a quello del ricordo e della possibilità, in una realtà fittizia, quale quella del teatro. Rinascere alla bellezza o morire per sempre di tristezza? Accettano la sfida! Io qui sono Capocomico, perché il nostro Capocomico se n’è andato via per sempre …. E sono capocomico donna, come lo era la Duse … Come un capitano di nave, mi sono assunta la responsabilità di condurre in porto la mia ciurma, incitandola ad agire, a creare, ad attingere dalla fantasia e conquistare un pubblico ormai smaliziato, disabituato alla verve comica del passato. I personaggi che fanno parte della compagnia sono sconosciuti, come i miei attori, ma ormai avvezzi a tecniche gigionesche, goliardiche; il corpo di ballo era fatto di donne prese dalla strada, dai casini. Una Compagnia di personaggi patetici, cialtroni, affamati, provati dalla guerra, dal dolore, senza arte né parte. Senza fondali, costumi, oggetti di scena, non rimane loro che rubare quel che trovano dal guardaroba del teatro e buttarsi a capofitto a fare la grande magia.
La prova che li aspetta sarà durissima: dovranno trasformarsi, moltiplicarsi, inventarsi, senza risparmiarsi.
È la metafora della follia da cui non può prescindere l’artista, la stessa follia che li farà spiccare il volo sulla scena, dopo tanti anni di ingiustificato silenzio.
Non si saprà mai come uno sparuto gruppo di guitti abbia potuto costruire dal niente una macchina così complessa ed agile come quella che sarà la nostra fatidica rappresentazione e arrivare indenni fino in fondo. Il dono dell’artista, anche il più piccolo, il più sconosciuto, è un mistero: il mistero della creazione, un gioco di prestigio che rende visibile l’invisibile.
È un’autoproduzione, quanto è difficile, se lo è, prodursi in questo Paese
L’autoproduzione è come l’autoerotismo, l’onanismo. Solo che non gode nessuno. Il Teatro è davvero un vizio assurdo. Futuro? Nessuno. Solo un passato che si conosce e un presente di fame sudore e lacrime. E trasparenza, frustrazione, vacuità. Come costruire sulla sabbia. E dolore, un dolore boia. Si rinuncia a tutto pur di dare respiro all’idea, al progetto che ti monta in testa, che prende corpo e anima e reclama di essere partorito. Ogni centesimo lo metti al servizio dello spettacolo, per dargli quello che per sua natura esige la parte artistica. Poi ti manca regolarmente il denaro per la promozione, la pubblicità. E così i conti non tornano mai. Mai. Ieri notte ho letto che un mio compagno di Accademia si è tolto la vita. Si è impiccato a casa. Era un pozzo senza fine di meraviglie. Pino Misiti si è tolto di mezzo. Non ce l’ha fatta più. Ma non per fragilità, nooo, era una roccia, un bravissimo attore, un ottimo commediografo. Cercava qualcuno che gli producesse la sua ultima commedia. Lo sapevano, ma hanno fatto finta di non saperlo, nessuno ha fatto niente. Per trascuratezza, per dimenticanza, per superficialità, per crudeltà gratuita, per arroganza del sistema. Così. E’ andata così. Per lui e per Monica Samassa e per Raphael Schumacher.
Cosa vuole lasciare nel pubblico?
La felicità. L’allegria. La consapevolezza del nostro straordinario patrimonio culturale. In effetti, quello che voglio, che mi invoglia, è stuzzicare la curiosità delle persone, perché, una volta a casa, vadano a cercarsi, a sgranocchiarsi per conto loro qualche altro bocconcino delizioso. Io consegno solo la chiave di volta, al pubblico aprire lo scrigno, la porta magica e scoprire, poco a poco, quel mondo magico, quell’isola del tesoro. Ma questo vale per tutta la cultura, questo dovrebbe essere il principio del fare cultura.
“Ce la faremo, tanto più se ci danno per spacciati. Noi artisti siamo maestri nell’arte di arrangiarci”.
Secondo lei, davvero gli artisti hanno sviluppato l’arte di arrangiarsi? E perché?
Questa gliela scrivo la prossima volta, alla prossima puntata, perché sono già le 6.47 del mattino e non sono ancora andata a dormire ….
Tantissimi attori in scena e anche un’orchestra. Un’impresa folle?
“Bagliori d’Avanspettacolo” vedrà riuniti 9 attori, un giocoliere, e cinque musicisti, nel rispetto della più bella e fantasiosa tradizione italiana. Così era e così deve essere. Cinque musicisti che suonano dal vivo significano prove su prove. Significa impostare la voce non solo alla recitazione, ma educarsi al canto, e nello stile di quegli anni. Significa costanza, preparazione, volontà, determinazione, a volte rinuncia. E da parte di chi produce significa un cospicuo impegno economico. Quasi tutte le produzioni in questi ultimi anni optano per una colonna musicale registrata. E’ più che comprensibile. Ma io so’ pazza, l’avanspettacolo si faceva tutto dal vivo, gli artisti correvano il rischio di essere presi a pomodori in faccia e uova marce, si scendeva nella fossa dei leoni e si affrontava il pubblico sovrano – à la guerre comme à la guerre! Le cose o si fanno per bene o niente.
Sono anni di ricerca, di dura preparazione, con attori che, oltre a recitare, ballano e cantano senza rete, e con musicisti, che interagiscono in scena con gli attori ed il pubblico, insieme per riscoprire un genere ormai desueto, e riappropriarsi di tecniche straordinarie non più praticate. E’ uno spettacolo difficile, molto difficile, anche solo a raccontarlo. Una messinscena che mostra due facce della stessa medaglia, ma che è soprattutto una riflessione sul significato profondo del fare teatro. Il risultato è sorprendente per l’energia che si sprigiona già durante le prove e per la spontaneità, la freschezza dell’improvvisazione, di cui la compagnia si è arricchita e restituirà al pubblico durante lo spettacolo.
Lo stile è basato su un’armonica fusione di satira, comicità, amarezza e crepuscolarismo. Guittate fameliche e patetiche dell’Avanspettacolo felliniano che spernacchiano la Rivista simil-Broadway dagli sfarzi sontuosi.
Lei mi chiede se è una follia…. lo è, senza appello, ma il Teatro è follia che genera follia, e fare teatro oggi è ancor più folle. E’ coazione a ripetere, se si rilancia a dismisura la posta in gioco, non avendo in mano che scartini, e se il bluff è dichiarato apertamente. Ma una volta che decido di mettermi seduta e di giocare, lo faccio seriamente … come giocano seriamente i bambini. Facciamo finta che eravamo una compagnia e lo siamo, facciamo finta che eravamo scritturati e la scrittura ce la scriviamo, facciamo finta che eravamo ricchi e no, non lo diventiamo di denaro, ma ricchi ricchissimi di spirito e coraggio da vendere.
Il nostro è un patrimonio immane, parlo di quello italiano. Uno sconcio ignorarlo; ignobile non rispettarlo, riportarlo in scena, seguendo le tracce, inventandosi la fantasia, i trucchi del mestiere, rispolverando l’immaginazione. Poco, ma con coraggio, onestamente, con il cuore e la volontà.
E’ una sfida, l’ennesima sfida, per riaffermare l’importanza culturale e identitaria, specialmente in questo periodo in cui si tenta di annientare culturalmente e moralmente il nostro Paese. Speriamo solo che il pubblico ci premi con la sua presenza e che qualcuno si accorga finalmente di noi.