Un applauso a chi ha aperto questo articolo perché ha colto la citazione nel titolo: avete il mio stesso grado di ossessione per questa serie.
Non mentirò: ho provato a riscrivere la recensione della quarta stagione già tre volte. La verità è che non posso fingere di farlo con qualsivoglia imparzialità critica quando negli ultimi quattro anni ho seguito la visione di questa serie con la serietà di un evento religioso (non fingerò neppure di non avere un altarino di Bojack in camera mia).
Che dire sulla quarta stagione?
Molte cose in realtà, ma in estrema sintesi nella parte centrale la volontà di raccontare troppe cose insieme ha portato a una contrazione e alla frettolosità di alcune story line, per il resto è stata un’ottima stagione come quelle precedenti, con dei picchi drammatici molto potenti verso la fine e uno splendido uso dell’animazione come forma stessa di narrazione.
Ma invece di parlare di questo, indaghiamo una cosa forse più interessante: perché questa serie è così celebrata, in particolare è così celebrata da tutta quella massa di scrittori/aspiranti tali/appassionati di narrativa?
Non è Ibsen
Nella primissima scena della primissima puntata della serie, quando a Bojack viene chiesto di commentare la sdolcinata sit-com di cui è stato protagonista negli anni ’90, giustificando la scarsa qualità della serie risponde
‘certo, non è Ibsen’.
Può sembrare una battuta come tante, anzi anche vagamente fuori luogo- perché un personaggio come Bojack dovrebbe tirare fuori un riferimento letterario non così comune?- ma la serie gli dà tutto un nuovo significato nella stagione successiva, in cui in un flash-back Beatrice, l’aristocratica e ipercritica madre di Bojack, assiste per la prima volta alle riprese di uno degli episodi di Horsing Around e al figlio commenta acida ‘Non è Ibsen’.
La stessa frase ricorre ancora una terza volta proprio nella quarta stagione quando, in un altro flash-back, questa volta ambientato a tre anni dalla conclusione di Horsing Around, Beatrice esprime tutto il rammarico e la delusione per ciò che suo figlio è diventato – un buffone che racconta storielle – e Bojack si difende con la frase
‘Non è Ibsen, ma alla gente piacciono le storielle’.
Ecco la potenza di un’unica semplice battuta, che da totalmente insignificante è stata trasformata in qualcosa di rilevante, ennesimo esempio di come la voce cattiva di Beatrice si sia insinuata nell’inconscio di Bojack, rendendolo il concentrato di insicurezze che è il suo personaggio.
Ed è anche uno delle centinaia di esempi che si potrebbe portare riguardo alla maniacale precisione con cui questa serie viene scritta, in cui nulla viene lasciato al caso, nulla viene dimenticato, tanto nella scrittura quanto nel disegno e l’animazione, con centinaia di gag visive che vengono riprese di puntata in puntata e addirittura di stagione in stagione.
In un mondo dove sempre più spesso ci ritroviamo davanti agli schermi a gridare ‘buco di trama’ o a chiederci perché gli sceneggiatori abbiano perso il basilare senso dei rapporti causa effetto, è rassicurante sapere che c’è un gruppo di persone che fa della continuità la sua missione di vita.
Si potrebbe dire che triste e divertente siano due facce della stessa medaglia
Frase pronunciata da uno dei clown dentisti di Todd nella quarta stagione, riassume uno dei punti forti della scrittura di Bojack Horseman: la dramedy.
Nell’oceano di dramedy che è il panorama televisivo attuale, Bojack Horseman è forse la serie che riesce meglio a mantenere la sua promessa di essere divertente quanto drammatica, che non è un’impresa per niente facile.
Nonostante le migliori intenzioni, ci sono grandi serie che stanno fallendo in questo: o perdendosi a raccontare i personaggi e dimenticando la comedy (Shameless) o senza riuscire mai davvero a stabilire cosa dovrebbe essere comico o tragico del proprio universo narrativo (Rick e Morty).
La dramedy è pericolosa perché il rischio che la tua intenzione risulti confusa e che il tuo spettatore rimanga davanti allo schermo con la domanda ‘devo ridere? devo piangere?’ senza fare nessuna delle due cose, è alto.
Ma Bojack ci riesce. Sa farti ridere e piangere esattamente quando e quanto vuole.
E la ragione di questo sta nell’unione di due mondi narrativi apparentemente inconciliabili: da una parte abbiamo le possibilità comiche infinite dell’animazione, che permette un umorismo sopra le righe, delirante, eccessivo, intrinsecamente legato allo straordinario lavoro di world building che è Hollywood – un modo abituato sia da umani che da animali antropomorfi; dall’altra parte gli abitanti di questo mondo non sono solo buffi animali, ma personaggi con una caratterizzazione umana realistica, la cui evoluzione viene operata attraverso i classici meccanismi della drammaturgia tradizionale che richiede (a differenza dello status quo tipico dell’animazione) che i miei personaggi cambino e che le loro azioni abbiano conseguenze. Un esempio di questo è per esempio il personaggio di Todd.
A prima vista Todd risulta lo stereotipo della sidekick comica che, nella sit-com animate, è spesso nei fatti asessuale.
La sua umanizzazione quindi avviene attraverso il riconoscimento di questa asessualità, che porta il personaggio (restando comico) a intraprendere una ricerca identitaria e personale che è invece territorio drammatico, trasformando un archetipo comico in una persona, con sentimenti da esplorare.
Finali deprimenti
Spesso si discute di quanto Bojack Horseman sia straordinariamente deprimente- vittima del pessimismo cosmico che permea ogni storyline – e che se non fosse per le gag e gli animali buffi sarebbe forse troppo cinica per poter piacere alla gente.
Il motivo però che rende la drammaturgia di Bojack così efficace è proprio il nichilismo dilagante che il creatore Raphael Bob-Waksberg ha deciso di applicare all’idea stessa di narrativa.
Più volte infatti nel corso della serie viene ribadito come la narrativa sia costruzione consolatoria della realtà e di come questa consolazione possa crollare nel confronto con il mondo reale: Bojack stesso tenta (o vorrebbe) vivere all’interno di una sit-com, finendo per vivere incredibili delusioni quando la realtà si palesa.
La missione degli autori di Bojack è quella di raccontare una storia rompendo il patto narrativo e sottraendo allo spettatore tutti quegli artifici che lo appagano e lo rassicurano- troppi per essere discussi ora- ma uno su tutti il finale.
Secondo Bob-Waksberg infatti il finale- e in particolare il finale da sit-com- è la più grande bugia televisiva.
Ed è così allora che la maggior parte dei finali di Bojack Horseman non concludono proprio niente, non sciolgono la trama o non ci portano dove ci aspettavamo, chiudendo su una nota amara.
A volte la battuta prima dei titoli di coda ci rivela addirittura che tutto ciò che abbiamo appena visto è stato inutile, o solo una fantasia.
Tutto questo lascia lo spettatore con un senso di vuoto, promettendogli qualcosa che non arriva mai, e rendendo concreta quella sensazione di vacuità esistenziale che sta alla base delle tematiche della serie.
Grande eccezione dei finali deprimenti è il finale della quarta stagione, che per la prima volta apre uno spiraglio di positività nella vita di Bojack. Certo, per la maggior parte degli altri personaggi la stagione è finita in modo negativo, ma dopo tre anni di nichilismo esistenziale, basta un sorriso di Bojack prima dei titoli di coda a regalarci qualcosa di potentissimo.
L’anti-eroe patetico
Bojack Horseman è un anti-eroe, uguale a mille altri che abbiamo visto in questi anni rappresentati nei media, anzi potrebbe anche apparire come lo stereotipo per eccellenza del cinquantenne depresso e alcolizzato, che nel pieno di una crisi di mezza età non ha altro modo di esprimere le proprie frustrazioni se non un caustico cinismo e una tendenza all’autodistruzione.
Bojack però ha una caratteristica che lo distingue e lo eleva come il miglior anti-eroe tra tutti: è scritto come una persona vera. L’anti-eroe come sua propria natura infatti ha un problema di credibilità e rapporto con il pubblico: se lo si carica troppo si rischia che gli spettatori lo odino, se si enfatizza sulle triste vicende che l’hanno reso tale lo si riduce a macchietta compassionevole. Gli anti-eroi nella vita vera non ci piacciono, e per renderli piacevoli nelle storie li rendiamo di plastica.
Ma Bojack non è un personaggio scritto per piacere.
Le azioni di Bojack hanno conseguenze vere e permanenti: non basta chiedere scusa per rimediare a tutto, e a volte non è possibile rimediare al fatto e si deve convivere con la consapevolezza di aver distrutto qualcosa per sempre.
Bojack si auto convince se stesso di essere sbagliato, rotto; ma la serie stessa non è d’accordo, etichettando questa come la scorciatoia a quella che è invece la strada lunga: il doloroso percorso di consapevolezza e lavoro su stessi, che si deve affrontare ogni giorno, in tutti i suoi ostacoli.
Tutto questo rende i rimpianti di Bojack, i suoi fantasmi, le sue ansie e l’odio che prova per se stesso spaventosamente reali, in quella che è considerata la rappresentazione più realistica della depressione nei media attuali. Bojack è un anti-eroe patetico perché lo spettatore è in grado di leggere la sua umanità ed empatizzare (e a volte ahimè immedesimarsi) senza giustificare il suo comportamento.