Nel 2011 il Medio Oriente implode, gli sbarchi dal Nord Africa si moltiplicano e Lampedusa, scoglio tra due continenti, diventa il centro di un ciclone mediatico. Ma al centro del circo dei media non c’è solo l’isola, ma anche Giusi Nicolini, allora sindaco di Lampedusa. E sulla figura di Nicolini, in qualche modo controversa, si fonda lo spettacolo di Ateliersi Isola e sogna, andato in scena sul palco di Fucina Culturale Machiavelli per la direzione artistica di Are We Human.
Un soggetto ricco di spunti
Il soggetto si presenta subito come denso e pregno di rilevanza, specialmente in un momento politico in cui i valori di accoglienza di cui la Nicolini si era fatta portatrice vengono messi in discussione. Un valore, quello dell’accoglienza, che deve misurarsi con la storia dell’isola, quella di essere crocevia tra due mondi. Un ideale che si scontra con il reale, con l’emergenza perpetua, con i morti senza nome, con le risposte insufficienti della politica italiana ed europea.
Al centro di tutto c’è una donna, salita al potere quasi per caso, e che adesso si ritrova travolta dalla bufera di un problema che è più grande del suo piccolo paese, molto più grane di se stessa e del suo effettivo potere.
E tutti i nomi, tutti i fatti raccontati sul palco sono freschi nella memoria dello spettatore, così vicini da essere vissuti ancora senza coscienza di memoria storica, ma con un sentire viscerale. Su tutto ancora fresco è il ricordo del naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa: 368 morti a pochi metri dal limite d’Europa.
Gli elementi per un’intensa e articolata analisi ci sono tutti. Dal palco i due interpreti usano le voci degli abitanti dell’isola, di politici e della stessa Nicolini per intessere la tela.
Una messa in scena statica
Ma è nell’esecuzione che tutto crolla. La sensazione con cui lo spettatore convive e con cui alla fine lascia il teatro è quella di un’insopportabile staticità: sono statici i movimenti, le luci, la musica, le interpretazioni che si giocano tutte sull’alternanza di lunghi monologhi.
Sul palco infatti lui e lei – Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi – sono seduti uno di fronte a l’altra e a turno danno voce a un punto di vista, piazzano un tassello nuovo del puzzle. Dietro di loro due dj con console accompagnano il tutto con beat ripetitivi e martellanti. Il palco viene poi immerso in luci neon rosse, verdi e blu che si fissano per lungo tempo sulle figure umane e le sformano.
È chiaro in questo un intento autoriale, una forma che mimichi il contenuto, ma il risultato è uno spettatore costretto ad ascoltare lenti fiumi di parole e beat mentre osserva un’immagine pressoché statica.
E la poca azione scenica a cui si assiste è spesso presentata in una forma convoluta: dei momenti che vogliono essere chiaramente simbolici ma che non vengono giustificati o sorretti da nient’altro nella messa in scena. La sensazione che rimanda allo spettatore nell’immediato è quella di atti casuali e dal significato completamente arbitrario.
Un testo mancante
Nei termini usati dalla stessa compagnia per presentare lo spettacolo troviamo la definizione ‘report in forma di concerto’. La perifrasi descrive con onestà la rappresentazione, ma nella sua stessa formulazione fa emergere evidente il punto debole di questa concezione teatrale: senza movimento, senza conflitto o messa in scena non c’è teatro. Quello a cui assistiamo è piuttosto una lettura interpretata, modalità sempre più diffusa ormai nel mondo del teatro civile ma che può comunque risultare intrigante se sorretta da un testo forte.
Il testo di Isola e sogna invece è una sequenza di citazioni e dati di fatto, niente che non si possa già trovare in un buon articolo giornalistico. Manca una reinterpretazione, uno sguardo che vada oltre il superficiale, che dia allo spettatore un quadro di senso. In altri termini sembra mancare una visione, assenza che emerge tanto dappunto al testo che dalla regia. Cosa si voleva dire oltre ai fatti evidenti? Qual era la domanda drammaturgica che ha spinto drammaturgo e regista? Se c’era non è rimasta allo spettatore.
Fare teatro civile
Troppo spesso pare ormai che sotto la bandiera del teatro civile, con la scusa di star raccontando storie di interesse pubblico, si mettano in scena spettacoli che mancano di tutto il resto. Non basta il tema importante, infiorettato in qualche piroetta artistica, per fare teatro.