E’ uscito lo scorso 16 ottobre grazie ad Adelphi, Paranoia, l’ultima raccolta di scritti di Shirley Jackson che, in questi giorni, è tornata a far parlare di sé e del suo romanzo più famoso, L’incubo di Hill House, grazie alla serie di Netflix che ha conquistato spettatori in tutto il mondo. A differenza del romanzo di genere horror, Paranoia si presenta subito all’occhio come una creatura ibrida, un qualcosa di mutevole e pieno di sfumature.
Dai quattro racconti iniziali – di cui uno che dà il titolo al libro – si passa ad aneddoti di vita quotidiana, a confessioni sussurrate con l’inchiostro, passando per recensioni e saggi sull’arte dello scrivere. L’intero ammontare della raccolta, che è stata curata dai due figli della scrittrice, Laurence Jackson Hyman e Sarah Hyman DeWitt, invece di creare un vespaio di informazioni e registri narrativi, coopera alla costruzione di un filo tematico che pone al centro del racconto l’autrice stessa. Paranoia, allora, smette di essere semplicemente un esempio di ciò che la scrittura – e, più in generale, la letteratura – dovrebbe essere, e si trasforma in una sorta di biografia ante litteram, un memoriale sui generis che passa attraverso il modo di vedere il mondo, ma anche attraverso il modo di viverlo.
I primi quattro racconti della raccolta cooperano tutti a dare una visuale ampia e cristallina di come Shirley Jackson intendesse raccontare l’inquietudine, la paranoia, l’assurdità di una vita che non sempre sembra sapere quale sia la direzione da seguire. I personaggi messi in scena in queste prime settanta pagine sono personaggi alla deriva, che vivono una realtà che non sempre coincide con quella degli altri. Dalla donna che pensa che chiedere scusa per una bugia vecchia di anni possa aggiustare il proprio matrimonio, ad una bambina che viene trattata come un adulta da genitori e amici che non si rendono conto di determinati limiti che sarebbe saggio non travalicare.
Racconti che si snodano con lo stile ormai noto della Jackson, che suggerisce più di dire, che ammanta le proprie storie di un senso di minaccia che non sempre si palese, ma che rimane a galleggiare in alto, facendo sì che il lettore rimanga sospeso in uno stato d’attesa che rende la lettura ancora più immersiva.
Ma la vera rivelazione di questa raccolta è data dai frammenti, dai ricordi e dagli aneddoti che la scrittrice colleziona nelle pagine a seguire. Sprazzi di una vita quotidiana, dove non viene mai meno né l’attenzione alle parole né quell’ironia serpeggiante che caratterizza l’universo letterario della Jackson. Dai bambini che vengono portati al ristorante perché non c’era altra possibilità, a genitori che si vergognano perché i figli non riescono a non raccontare scenate e liti familiari di poco conto. E, in mezzo a questo universo abitudinario e quasi noioso, emerge la figura di una donna piena di credenze e superstizioni. Una donna che fa accapponare la pelle di chi legge raccontando di case infestate e fotografie che cambiano; di teschi poggiati sulla biblioteca che non ne vogliono sapere di staccarsi, a porte di cantine che si aprono da sole.
La vita di Shirley Jackson diventa simile a quella dei personaggi che ha donato al mondo e il lettore non può fare a meno di divorare le pagine, di addentrarsi ancora di più in una mente in continuo lavorio, un’ispirazione costante che può venire in ogni momento, dai luoghi più disparati e disperati.
E, alla fine, Shirley Jackson sale in cattedra, ci spiega i suoi metodi e i suoi simboli, spiegando come non si senta in diritto di fare esempi che escano dalla sua produzione, perché di base è la sua produzione ciò che conosce e ciò di cui può parlare. La scrittura, allora, diventa una sorta di armatura, una seconda pelle con la quale l’autrice si presenta al mondo, lasciandosi leggere come se fosse anche lei un libro.