Inizierei citando Kundera: “Forse non siamo capaci di amare proprio perché desideriamo essere amati, vale a dire vogliamo qualcosa (l’amore) dall’altro invece di avvicinarci a lui senza pretese e volere solo la sua semplice presenza.”

Nicola Russo, in questo suo lavoro in prima nazionale per Le vie dei festival al teatro Tordinona di Roma, mette invece due presenze l’una accanto all’altra, senza pretese, aspettando solo che il dramma (o l’azione) nasca spontaneo dall’interazione fra loro.

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È un interno spoglio quello che accoglie i due personaggi (madre e figlio), un tinello immobile e immutato, uno fra molti, tanto da sembrare quasi uno scenario post atomico, beckettiano nella sua ovvietà. Ma questo suo essere scontato in realtà permette al pubblico di essere assorbito dalla storia, di immedesimarsi fin da subito, dal monologo di apertura della madre, schiacciata sul fondo contro uno schermo/televisore/finestra che mostra continuamente scorci di palazzi. Intorno a queste due anime – perché più di anime si tratta che di persone – tutto è avvolto nella plastica bianca, asettico, senza identità.

È assente la nozione di tempo, se non fosse per la scansione dei video che impongono la visione di esterni architettonici o dettagli naturali. Si ha l’impressione di vivere un continuo flashback duplice, racconto dell’uno e dell’altro punto di vista, che si intrecciano, si respingono, si sommano o si sottraggono. È assente la motivazione di questa presenza: la madre è proiezione del ricordo o forse vita stessa? Il figlio è vivo o morto? Ricorda dopo il funerale o dopo molti anni? E il gioco drammaturgico, a chiave come i giochi enigmistici, si rivela (forse) sul finale, quando le parole crociate si manifestano per quello che sono: tappe o ricordi di una vita, forse di un sogno o di più incubi.

Il dubbio si scioglie nella battuta conclusiva, ironica, spiazzante: “io lavoro per la morte”, preludio di una ennesima sigaretta, simbolo anch’esso di libertà, di vita e forse di identità.

I due interpreti danno il meglio l’uno, il figlio, nel distacco doloroso, ma mai addolorato, a volte stordito, l’altra, la madre, nei tempi sempre diversi, nell’ironia, nelle pose plastiche, nelle lievi intonazioni inaspettate. Fra i due, per scrittura, vince la madre, che è il vero centro drammatico. Il figlio è solo specchio e questo si intuisce anche nella costruzione registica. Lui veste di scuro, si muove di meno, si mimetizza. Lei veste di rosa, visibilmente vintage con i suoi capelli vaporosi e le sue scarpe col tacco, ma non solo. Lei ricorda Jessica Lange per il modo di fumare, Monica Vitti nel modo di ridere e qualche volta Anna Marchesini in un paio di passaggi più ironici. Non per togliere identità a Sandra Toffolatti, ma per dire che la sua profonda opera di trasformismo ha raggiunto picchi di notevole interesse.

A Nicola Russo si riconosce invece la toccante dolcezza del dolore, la sua naturale attitudine al racconto, non per mancanza di immedesimazione, ma solo perché la vera protagonista “in azione” di questo testo è la vita vissuta da lei, dalla madre.

Ma a Nicola Russo va soprattutto il merito di aver costruito un testo e uno spettacolo sull’assenza, dolce, toccante, coinvolgente, ma mai scontato, mai piegato al sentimentalismo, sempre lucido anche nell’uso consapevole dei linguaggi e dei riferimenti extrateatrali.

Gli applausi di un pubblico caloroso lo hanno confermato senza dubbio.

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