di Alessia Carlino
Geometrie liquide, fisionomie intellegibili, volumi razionali, i disegni di Francesco Bevini si inseriscono in contesti anonimi, non luoghi dove lo spettatore deve concentrare lo sguardo nei minuziosi dettagli che l’artista emiliano elabora con doviziosa tecnica.
Il percorso di Bevini nasce in seno al graffitismo, il suo approccio non ha mai abbandonato la componente transitoria nei suoi lavori, i contesti in cui l’artista opera sembrano voler sottolineare questo proposito di ricerca dell’effimero.
Gli interventi di Bevini non esplicitano un messaggio univoco, rimangono latenti, quasi sospesi, generando un sentimento di estraneazione.
Ho raggiunto telefonicamente l’artista qualche giorno fa, una lunga chiacchierata in cui mi ha raccontato il suo percorso. Francesco Bevini, oltre la sua attività creativa, ha dato il via nel 2002 al festival Icone Modena insieme a Pietro Rivasi, una manifestazione tra le prime in Italia a raccontare il fenomeno dell’arte urbana.
Francesco vorrei iniziare la nostra conversazione parlando del festival Icone Modena, uno dei primi eventi nati in Italia che ha portato grandi artisti internazionali in Emilia, come è nata questa iniziativa?
Siamo partiti nel 2002 insieme a Pietro Rivasi grazie semplicemente al permesso che il comune di Modena ci diede per dipingere un muro. Il nostro impegno proseguì anche attraverso l’organizzazione di progetti espositivi, la prima mostra riguardava due grandi artisti francesi, Honet e Stak, tra i primi ad articolare ed espandere il concetto di graffitismo.
Erano le prime opere che uscivano fuori dal canonico graffito, qualcosa stava germinando anche se un artista come Honet continuava la sua attività con interventi su treni e metropolitane.
Icone Modena ha visto attraversare ben dodici edizioni, nel 2009 io e Pietro Rivasi abbiamo aperto una galleria attraverso l’indizione di un bando comunale perché lo scopo era quello di riqualificare le zone industriali degradate intorno la stazione ferroviaria.
La gestione durò fino al 2012, io abbandonai questo settore mentre Pietro continua la sua attività presso la galleria D406.
Sono rimasta molto affascinata dai contesti in cui vai ad operare, spesso si tratta di spazi degradati, fabbriche abbandonate, una sorta di non luoghi dove inserisci i tuoi interventi, qual è stato il tuo primo approccio a questa forma espressiva?
Ho iniziato nel ’94, avevo 14 anni, a dire la verità il primo impatto fu quasi drammatico, feci il primo graffito in un sottopasso, la mia inesperienza prevalse su tutto e gli strumenti che utilizzavo completamente inadeguati.
Ho compreso da quell’evento, e durante tutto il mio percorso, che non possiedo ritmi serrati, legati quindi al fattore cronologico che è fondamentale in un contesto di illegalità. Ho sempre preferito i muri ai treni, forse anche per la scomodità di dipingere in certe situazioni.
Sin dal ’96 il comune di Modena ha concesso spazi dove poter operare, questo è stato un fattore determinante per la mia formazione, ci sono comunque state esperienze nate in seno all’illegalità ma sempre con una forte componente etica che rispettasse la città e la sua storia.
Il passare degli anni mi ha permesso ad un certo punto di accedere a richieste di committenza, grazie a queste sono riuscito a proseguire cibandomi della mia arte.
Dal graffito il passaggio verso la pittura fu naturale, quando le commissioni riguardavano ambienti interni era impossibile logisticamente utilizzare gli spray, la pittura invece mi ha sempre permesso di operare in qualsiasi contesto e di sviluppare in questo modo la mia tecnica e il mio stile.
La mia matrice figurativa è fondamentalmente geometrica per cui utilizzare le bombolette spray risulterebbe controproducente.
Il tuo universo immaginifico da cosa nasce, come è scaturita l’idea di creare queste creature criptiche che celano ogni espressione emotiva?
Nel periodo dedito ai graffiti, quindi durante i miei primi approcci, nel gruppo con cui operavo c’era sempre qualcuno addetto alla componente figurativa, spesso ero io che me ne occupavo iniziando così a sperimentare il mio stile.
Le figure che disegno sono personaggi dall’apparente estraneità, mi piace descriverle come fossero maschere teatrali neutre. Vi è nel mio lavoro l’intento di rappresentare una serialità di espressioni, i volti sono spesso malinconici, celano ogni minimo segno fisionomico. In generale nelle mie opere cerco di affidare la percezione di un’espressione a piccole tracce, dettagli minuziosi a cui può essere legata qualsiasi tipo di interpretazione.
Quello che mi ha colpito del tuo lavoro è la stilizzazione delle figure che rendono intellegibili i tuoi interventi, qual è stato il percorso che ti ha condotto verso questa cifra stilistica?
Le geometrie subentrano dal principio della mia attività, all’inizio lavoravo molto per contrasti attraverso le differenti texture che donavo ai vestiti dei miei personaggi, mi piaceva ci fosse un’opposizione tra l’incarnato e i motivi molto grafici, quasi optical degli indumenti.
Successivamente si sono irrigidite anche le fisionomie e ho iniziato a giocare sugli incastri, sui volumi, facendo perdere la connotazione anatomica ai miei personaggi, diventando mano a mano degli ibridi.
Nei contesti in cui operi i tuoi interventi richiedono un’attenzione particolare dello spettatore, sono lavori che definirei non invasivi ma che catturano lo sguardo di chi ha cura nel cercare, in un momento storico in cui sembra emergere la volontà, specie in seno alla street art, di valorizzare opere dalle dimensioni monumentali che in certi casi ignorano il contesto in cui si interviene..
Le mie opere nascono in prima istanza da esigenze pratiche, i contesti dove opero sono spazi tranquilli, disabitati. Sono molto prolisso quando dipingo e presto molto attenzione ai particolari.
Ho bisogno di tempo per riflettere sulla mia opera, sul muro dove sto intervenendo. I miei lavori sono quindi il frutto di un’esigenza tecnica, sono opere di piccole dimensioni perché non riuscirei forse ad approcciarmi ad una superficie monumentale.
Spesso credo che dietro la poetica si celi un’utilità bieca, il mio stile si concentra anche sul mio modo di operare, non sarei in grado di gestire un intervento dove sono presenti particolari effetti visivi, sarebbe per me qualcosa di interminabile.
Nella mia ricerca tento di cogliere l’interesse altrui attraverso un tratto differente, nella volontà della cura di ogni dettaglio.
Francesco quali sono i tuoi riferimenti visivi?
Honet è sicuramente il mio spirito guida, il mio approccio grafico lo devo a lui. Mi piace molto lo stile di Herbert Baglione, tra l’altro uno dei protagonista dell’edizione 2013 di Icone Modena.
Per quanto concerne invece un apporto più classico non posso fare a meno di citare Depero uno dei protagonisti della stagione Futurista, un personaggio poliedrico incredibilmente geniale.
La componente effimera e transitoria del tuo lavoro è un dato a cui è inevitabile non pensare, come vivi questa sensazione, è un sorta di sfida contro gli elementi o una semplice constatazione di fatto nel momento in cui operi in contesti non istituzionali?
Non esiste la pretesa di conservare, il mio percorso, avendo avuto inizio in seno ai graffiti, nasce con una forte consapevolezza in cui l’effimero diviene una componente imprescindibile, una sfida anche con me stesso. Certe volte non è solo l’elemento naturale a distruggere il proprio intervento, i fattori sono molteplici, ad esempio a Modena il comune ha abbattuto un edificio dove era presente un murales dei brasiliani Os Gemeos. L’elemento transitorio è il comun denominatore degli interventi urbani, bisogna accettarlo e prendere coscienza che forse qualcosa andrà perduto ma con la consapevolezza che ha vissuto la sua storia insieme al contesto in cui è nato.
Info: http://
Per saperne di più sul festival Icone Modena: http://