Il mito atemporale di Medea al Ghione

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E’ stata definita, almeno nel mito originario di Euripide, una donna che per amore perde la sua dignità ma anche una donna volitiva, forte e vigorosa, che si ribella alle regole imposte dalla società greca e vi sfugge con fiera determinazione, a costo del sangue di suo fratello e del tradimento della sua patria.

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Fin qui, siamo ad Atene, 5° sec. a.c., età alessandrina. La tragedia di Euripide potrebbe leggersi secondo la dialettica, tutta moderna, tra codici culturali dominanti e avanguardie artistiche, in cui potremmo riconoscere i topoi euripidei, profondamente moderni, nella loro intenzione di fare introspezione psicologica, scandagliando un’anima tormentata dal sé individuale e dal sé sociale: Medea non si conforma e per questo resta sola ed emarginata dalla polis, sola con la potenza del suo amore incondizionato per Giasone ma, forse, è qui lo scatto temporale, la cesura della Medea di  Jean Anouilh, inscenata al teatro Ghione di Roma da Barbara De Rossi, per la regia di Francesco Branchetti (che interpreta Giasone), dal 16 al 24 marzo.

La versione novecentesca, nel concentrarsi sull’identità molto più carnale e meno da divinità mefistofelica euripidiana, fa un’operazione di riscatto di quella parte estremamente attuale che è in nuce nell’opera di Euripide, contestualizzando l’avanguardia che è tale nel contesto storico del drammaturgo, nella modernità novecentesca. Medea diventa una donna che, nonostante il suo amore, non rinuncia alla sua individualità anticonformista, “selvaggia”, come la definisce lo stesso Giasone, una donna la cui disperazione amorosa duella instancabilmente con la sua fiera autodeterminazione, a cui la sua natura ribelle non può soccombere.

Al contempo, la reificazione novecentesca del mito euripideo dell’autore teatrale francese, nel voler umanizzare quella semidea dai poteri magici, in Euripide, prevede che, dopo l’uccisione dei suoi figli, Medea non si allontani vittoriosa su un carro alato ma perisca nel rogo da lei stessa appiccato: qui non c’è il deus ex machina che determina dall’esterno gli avvenimenti, né la società moderna potrebbe comprendere la trasfigurazione vittoriosa di Medea secondo i canoni allegorici dell’antica drammaturgia greca, per i quali l’ascesa di Medea, omicida, rappresenta la sua liberazione psichica, di certo non un premio.

Nella Medea di Anouilh, gli oscuri abissi della malvagità della donna non sono opera del fato ma sono tutti interni alla psiche umana, nella conflittualità dell’animo umano, così come le sue passioni distruttive sono il lato oscuro di sentimenti universali.

Peccato per una Barbara De Rossi che restituisce fedelmente il discorso interiore di Medea deprivandolo di quegli accenti tonali che sono la grammatica stessa del pathos del teatro antico. La sua recitazione pecca di un eccesso di misura, per usare un ossimoro, che la rende malinconica e fredda, sacrificando la catarsi dell’ira distruttiva di Medea: lo scioglimento sembra non avvenire mai e l’epilogo ristagna in una rassegnazione che nulla ha del parossismo emotivo che ci si aspetta accompagni una scena indicibile, come l’uccisione dei propri figli.

Barbara De Rossi dà vita a una Medea troppo ostaggio del testo scritto e dalla gestualità poco tratteggiata; Francesco Branchetti interpreta un Giasone inedito, bordel line che, al contrario, dà libero sfogo alle sue emozioni più acute.

Nel complesso: un’opera altamente referenziale ma dalle potenzialità connotative inespresse.

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