Gli attori della compagnia del CUT diretti dalla regista Diana Hobel offrono al pubblico uno studio sul testo teatrale Mary Rose, una storia misteriosa opera dello scrittore e drammaturgo scozzese James Barrie creatore del personaggio di Peter Pan.
Lo spettacolo è andato in scena in via straordinaria al Teatro dei Fabbri il 24 e il 25 febbraio anziché all’Hangar Teatri, poiché il neonato spazio è stato momentaneamente chiuso per motivi tecnico-organizzativi.
I sette componenti della compagnia, tutti under 35, hanno lavorato a lungo alla messinscena del testo per un totale di quasi 200 ore. Un’anteprima, quella al Teatro dei Fabbri, in vista del debutto al TRIESTE TACT Festival 2018 sul palco del Teatro Sloveno di Trieste il prossimo maggio.
La storia di Mary Rose ha il vanto di aver conquistato persino Alfred Hitchcock il maestro del brivido e infatti, sebbene sia sconosciuta ai più, ha un fascino indiscutibile.
Una ghost story scritta per il teatro che inquieta lo spettatore senza la necessità di particolari artifizi, tanto cari alla celluloide.
Al centro del dramma vi è Mary Rose una giovane donna e un’isola il cui nome in gaelico significa: l’isola che vuole essere visitata. Si narra che quest’isola chiami a sé solo coloro che riescono a sentire il suo suono facendoli sparire nel nulla, ingoiati dalla terra, per poi restituirli giorni, mesi o addirittura anni dopo immemori dell’accaduto, come se il tempo nel corpo e nella mente non fosse mai trascorso.
Mary Rose scompare due volte e due volte riappare giovane, come l’ultima volta che è stata vista, mentre tutto intorno a lei muta e le persone care invecchiano.
Un Peter Pan al femminile dai toni cupi, senza il finale da fiaba.
Mary Rose è un testo sul tempo, sulla crescita, sulla giovinezza che svanisce, ma nella protagonista vediamo qualcosa di diverso rispetto agli altri: fresca, ingenua, gioiosa, visionaria.
Nell’interpretazione della regista, restituita efficacemente dall’attrice Valentina Fiammetta Milan, Mary Rose non è solo una bambina mai cresciuta, ma un’artista. Solo lei, infatti, riesce a sentire il suono prodigioso dell’isola grazie al suo animo sensibile alla bellezza.
Questa, però, è solo una delle tante chiavi di lettura proposte dal testo che non è semplicemente una storia fantastica, ma qualcosa che potrebbe riguardarci da molto vicino.
Il lungo lavoro degli attori è palpabile, lo studio sui personaggi si riverbera su un’interpretazione consapevole e matura. Non mancano, sebbene regni una atmosfera sospesa, momenti di respiro in cui la tensione si allenta sciogliendosi in una risata, conquistata dagli attori con naturalezza. L’impressione è, però, che il testo debba essere ancora rodato per raggiungere compattezza e ritmo appropriato al incedere della storia.
La regia di Diana Hobel semplice ed elegante è riuscita a trasformare un palco semivuoto, con l’aiuto di qualche sedia, una quinta e un buon disegno luci, nel luogo della creazione per eccellenza: la fantasia. Costruiamo insieme ai personaggi immagini solide della casa dei ricordi di infanzia, dell’isola misteriosa e ancora della casa abbandonata senza che la scenografia muti.
I cambi di palco nella penombra aiutano lo spettatore a tenere le file delle cornici narrative e l’idea della poltrona sempre illuminata richiama piacevolmente alla mente l’atmosfera sinistra della serie televisiva degli anni Sessanta ideata da Rod Serling chiamata – guarda caso – Ai confini della realtà.