Un giorno, basta un singolo giorno, un martedì qualunque per descrivere e raccontare una storia diversa, una quotidianità contratta piena di una vita perennemente in affanno, un’ esistenza fatta di parole non dette e ore sospese tra gesti di ordinaria routine, frustrazioni e conflitti lancinanti.
Ore,solo pochissime ore come c’è ne sono tante, fatte di distanze invalicabili e di vuoti sconfinati.
Martedì al Monoprix di Emmanuel Darley con Enzo Curcurù e la regia di Raffaella Morelli è un raro esempio in cui il mestiere dell’attore incontra un buon testo,asciutto, ritmato, ricco e pregnante. Andato in scena al teatro Belli in Roma dal 21 al 26 ottobre Martedì al Monoprix è uno spettacolo che nella sua complessità convince.
La storia è semplice pur nella sua accezione di diversità. Un figlio transessuale, Marie-Pierre/Jean Pierre si occupa con profonda devozione e frustrata abnegazione di suo padre. Passano una giornata, quella del Martedì insieme tra pulizie spese al supermercato. Ore lente,quasi interminabili, fatte di mezze parole, pesanti e taglienti come coltellate. Un lento e massacrante duello fatto di gesti e silenzi, sguardi e non detti. Vuoti che implodono tra due personalità aggrappate ad una sterile seppur autentica affettività.
La riuscita dello spettacolo sta tutta della straordinaria interpretazione di Enzo Curcurù. Intenso,sempre presente, poliedrico e fisicamente perfetto, calato perfettamente nel duplice ruolo figlio/padre Curcurù trasforma ogni gesto e parola di Marie Pierre in una piccola opera d’arte. L’attore domina e gestisce perfettamente lo spazio e la scena, riempiendola in ogni istante di una componente pienamente fluida ma allo stesso tempo fortemente carismatica e materica. Una perfetta sintesi di Maschile/Femminile che con grande naturalezza e ritmo si espande per tutta la durata della pièce. Lo spazio diventa pieno, sfruttato, saturo.
Il tocco femminile alla regia si tocca in ogni istante. Raffaella Morelli crea una atmosfera polverosa e densa. Un’ aria solida che sa di un passato che non si riesce a districare. Un nodo che non si riesce non si può e non si vuole sciogliere. Un’ attesa fatta di ruggine incrostata e una distanza che non si riesce a colmare. Tutto diviene incomunicabilità tra un figlio/a in perenne debito con il mondo e un padre che fa del silenzio lame taglienti.
Rimane quella mancanza di leggera ironia, quel desiderio frustrante di un abbraccio impossibile, di un sorriso congelato, di una parola di una sola e unica parola, che le distanze non fanno partorire mai.