Avvio ufficiale ieri sera della diciassettesima edizione del Trieste Science+Fiction Film Festival nella nuova sede del Politeama Rossetti con la proiezione del film Marjorie Prime, pellicola firmata da Michael Almereyda e tratta dall’acclamato testo teatrale, nominato al Pulitzer 2015, di Jordan Harrison.
L’autore ci porta in un futuro (prossimo?) in cui gli ologrammi sostituiranno le persone defunte in una sorta di inquietante immortalità non tangibile.
La scena si apre su una donna anziana, Marjorie, interpretata da una intensa Lois Smith, intenta a parlare con il marito quarantenne Walter (Jon Hamm).
Ben presto si intuisce che quello con cui sta parlando in realtà è solo una forma visibile dei suoi ricordi, un “prime”.
L’uomo, o meglio la macchina, interagisce con l’anziana dandole la parvenza di un rapporto normale ma in realtà è solo un registratore di memorie che è stato programmato dal genero Jon (Tim Robbins), uno scienziato, al fine di renderle meno difficile una vecchiaia resa ardua dall’Alzheimer.
Tuttavia la figlia di lei Tess (Geena Davis) non è convinta che sia una buona idea quella di creare di fatto un fantasma del padre.
Questo dilemma è stato affrontato di recente anche in film come Her di Spike Jonze per esempio, anche se nel caso del Prime in realtà non prova alcuna emozione, quindi di fatto l’inganno è minore.
L’idea di far tornare, grazie alla tecnologia, una persona cara tra i vivi è stata affrontata anche in Black Mirror con la prospettiva oltretutto di migliorarne l’esistenza stessa eliminando ricordi spiacevoli e smussandone altri in modo da rendere il prodotto finale decisamente più perfetto.
Ma è veramente qui che la tecnologia ci sta spingendo ?
Durante la visione del film il sentimento principale è quello dell’inquietudine. Da una parte ci si rende conto che in effetti la tecnologia ci sta portando verso risultati che possono apparire fantascientifici ma che sembrano anche più prossimi di quanto si possa pensare.
Quanti di noi, messi di fronte ad una scelta, accetteranno di mettere da parte aspetti deontologici per poter parlare, magari un’ultima volta, con una persona defunta ?
Questo traspare soprattutto nei dialoghi tra Marjorie e Walter ed ancora di più tra Jon e Tess, morta suicida poco dopo la madre.
L’altro sentimento è quello specifico dei nostri tempi : la solitudine e la mancanza di dialogo.
L’incapacità di parlare tra madre e figlia, quel tenersi tutto dentro ma anche quella voglia di dirsi tutto quando è umanamente troppo tardi sono il filo conduttore dei dialoghi tra Tess e Marjorie.
Parliamo di un testo teatrale trasposto al cinema quindi è abbastanza naturale che a farla da padrone siano i dialoghi più che le azioni.
Praticamente tutto il film si sviluppa in una casa in riva al mare, presumibilmente a Long Island, e buona parte dei dialoghi sono tra il vivo seduto su una poltrona (sempre la stessa) e l’ologramma sul divano (sempre lo stesso e stessa posa).
Gli attori
Messa così, per rendere un prodotto di qualità, è indispensabile che gli attori siano di livello ed i quattro succitati protagonisti lo sono decisamente. Lois Smith, molti la ricorderanno come la protagonista de La Valle dell’Eden di Elia Kazan (1955), è di una dolcezza incredibile e crea immediata empatia con gli spettatori.
Jon Hamm, smessi i panni di Don Draper di Mad Men, è forse l’attore più perfetto per quel ruolo con quella “rigidità” di fondo che gli permette di essere un ologramma freddo ma non robotico.
Geena Davis ha, finalmente oseremmo dire, un ruolo da protagonista e, se si esce dalla sala inquieti, è anche e grazie e soprattutto alla sua sua interpretazione della donna moderna, piena di ansie, incattivita, incapace di comunicare fino a togliersi la vita pur di non chiedere aiuto.
Tim Robbins è semplicemente perfetto, il collante ideale tra i vari personaggi. A lui il compito di programmare la macchina, di accudire la suocera, di cercare di aiutare la moglie ma tutto ciò ha un costo che annega nell’alcool.
Nel ruolo più marginale di Julie, l’infermiera che cura l’anziana troviamo Stephanie Andujar.
Suoni e luci
Ad un testo così potente, per renderlo cinematografico, si poteva solo chiedere una buona fotografia, Sean Price Williams ha fatto un ottimo lavoro, e soprattutto una buona colonna sonora e qui Mica Levi ha fatto un piccolo capolavoro.
O meglio la fusione di immagini e suoni ha dato quel quid in più perché mentre ci lasciamo trasportare in una casa sulla spiaggia, il vento, il sole, la pioggia comunque tutti elementi che ci fanno stare bene, la musica è una vera spina nel fianco, ti graffia la pelle, a tratti non ti lascia respirare.
La regia è leggera, come è giusto che sia, lasciando spazio agli attori con tanti primi e primissimi piani. Non è un film rilassante perché c’è spesso da interpretare, non tutto è spiegato, ma questo è anche il punto di forza perché la morte ed i ricordi spesso non si possono spiegare.