Non ci sono più le mezze stagioni. Anche se, sulla carta, quella 20/21 del Politeama Rossetti di Trieste, inaugurata martedì sera da La pazza di Chaillot di Franco Però ha tutta l’aria di esserlo, una mezza stagione.
I proverbi, si sa, non ammettono repliche. E neppure i “climate clock” installati a New York, Berlino e altre città del mondo per scandire il lento, inesorabile avvicinarsi del punto di non ritorno.
L’intento, dopotutto, era quello di lasciare un messaggio forte, inequivocabile. Ed era importante tornare a teatro, riassaporare la normalità di un tempo.
Normalità che vestirebbe i panni della stravagante protagonista di questa cupa commedia sociale, Aurélie, se solo l’uomo avesse scelto di «abitare», amare il suo mondo, anziché «cavalcarlo come un fantino», sfruttarlo fin dalle viscere.
Non sarebbe del tutto normale, infatti, preoccuparsi della salute di un amico? È questo l’impietoso paradosso dell’adattamento di Letizia Russo (che nel 2018 aveva brillato per quello del Maestro e Margherita), che la folta compagine dello Stabile metterà in scena fino a domenica 11 ottobre con Manuela Mandracchia, star d’eccezione per il difficile ruolo che fu di Anna Maria Guarnieri nella La pazza di Chaillot di Ronconi del 1991.
Ad affiancarla, un ottimo Giovanni Crippa nel ruolo del cenciaiolo; una convincente Zoe Pernici nel ruolo della sguattera in cui la pazza rivede se stessa e la sua malandata storia d’amore; e una Maria Grazia Plos applauditissima, in stato di grazia, matta vera.
E se, un po’ brechtianamente, ma senza «spirito di aggiornamento» come scrisse Franco Quadri, Ronconi spettacolarizzava lo svelamento dell’artificio e dell’edificio teatrale attraverso il grottesco recitar cantando di attori che volavano (letteralmente) su una scena nuda e ferrosa, mosso da ben altri propositi Franco Però si affida alle scene disturbanti e kitsch di Domenico Franchi e ai costumi didascalici e ipersaturi di Andrea Viotti, affinché il messaggio non possa in nessun modo venir frainteso.
Che l’operazione guardi allora anche ai colori del teatro boulevardier che Cocteau avrebbe poi “richiamato all’ordine”, puntando su un teatro più impegnato – ma non ancora realista né epico – sembrerebbe confermato anche dai vorticosi cambi scena a vista. Perché quello di Jean Giraudoux era un teatro impegnato anche a compiacere se stesso, non solo a raccontare l’eterno conflitto tra ricchi e poveri o la lotta ecologista, ancora ai suoi albori, perciò più garbata e poetica, come splendidamente racchiuso nell’ultima battuta pronunciata dalla Folle dell’originale: «Alors remontons. Aux affaires sérieuses, mes enfants! Il n’y a pas que les hommes ici-bas. Occupons-nous un peu maintenant des êtres qui en valent la peine!».
Non così nel finale scelto da Però e Russo, completamente stravolto, sveviano, in cui lo sguaiato poker del malaffare (Andrea Germani, Mauro Malinverno, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio) fa saltare tutto per aria.
«Forse attraverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute». Non ne era del tutto sicuro Zeno Cosini. Ma oggi non c’è più tempo per le incertezze, le mezze misure. Perché è così: non ci sono più le mezze stagioni. «E allora torniamo ad affari seri, cari miei! Non ci sono solo gli uomini qui. Adesso occupiamoci un po’ degli esseri che lo meritano».