Appuntamento a Londra arriva in scena al Teatro India di Roma dal 31 gennaio al 4 febbraio
«La verità non è, si crea tra individui» afferma Luigi Tabita, protagonista del dramma “Appuntamento a Londra” insieme a Lucia Lavia, per la regia di Carlo Sciaccaluga.
“Appuntamento a Londra” è una pièce scritta da Mario Vargas Llosa, scrittore e drammaturgo peruviano insignito del premio Nobel per la letteratura. Ci troviamo nell’uggiosa e cosmopolita Londra. Luca, valente uomo d’affari, riceve la visita di una donna che dice di chiamarsi Maddalena e di essere la sorella di un suo vecchio amico d’infanzia. Tuttavia niente è come sembra. Luca e Maddalena si incontrano, sembrano riconoscersi, poi si riallontanano l’uno dall’altro e tutto ricomincia. Man mano che ci si addentra nelle pieghe del loro passato, la verità viene ricostruita attraverso incredibili colpi di scena, per poi franare e rinascere ogni volta con forme nuove.
“Appuntamento a Londra” affronta temi cardine dell’essere umano quali la verità, l’identità e l’amore. Con coraggio e sensibilità si parla di sensi di colpa, impulsi repressi e libertà. Parte così un viaggio alla scoperta dell’interiorità dei personaggi e della loro sofferta lotta per trovare la propria identità.
Dopo un grande debutto a Catania, il regista Carlo Sciaccaluga porta a Roma “Appuntamento a Londra” con Lucia Lavia nei panni di Maddalena e Luigi Tabita in quelli di Luca.
Per l’occasione, l’interprete Luigi Tabita ha rilasciato una profonda intervista e insieme abbiamo parlato del teatro come luogo di condivisione, del suo personaggio e dei temi cardine del dramma.
Come vi sentite per il grande debutto a Roma dopo l’esperienza in Sicilia? Prevedete altre tappe?
In Sicilia è andata benissimo, è stato un successo sia di pubblico che di critica. Speriamo di continuare con altre tappe, ma per ora pensiamo a Roma. Siamo emozionati perché Roma è pur sempre la capitale e saremo al Teatro India, il teatro nazionale, quindi c’è grande fermento. Attendiamo anche di capire come il pubblico romano interpreterà questo testo, che a me piace definire feroce e tragico, e che affronta un tema tanto caro all’autore, ossia la creazione della verità. La verità non è, si crea tra individui. Luca e Maddalena si incontrano e si scontrano in un dialogo psicologico e violento in alcune parti. I due personaggi si cambiano le identità in un gioco costruito su più piani che si intersecano: il piano della realtà, il piano della finzione e il piano della rappresentazione. È un testo molto avvincente che inchioda il pubblico alla poltrona. Si vuole arrivare alla fine per scoprire qual è la verità, perché il tema è quello. La pièce è costruita benissimo, non per niente Mario Vargas Llosa è un premio Nobel.
Appena ventenne, tu hai debuttato nell’opera “Fantasmi sulla vita di Pirandello”. Quanto è stata forte l’influenza pirandelliana nell’approccio a temi del dramma quali la costruzione dell’identità o l’ambiguità della verità?
Sicuramente noi siciliani siamo intrisi di pirandellianitudine. Questo essere, apparire, questa ricerca pirandelliana della verità, ciò che siamo realmente, come ci rappresentiamo in società. Come nel “Berretto a sonagli” ci sono le tre corde, la corda seria, la civile, la pazza… Io, come tutti noi siciliani, mi porto dentro questo mondo pirandelliano che fa parte del nostro DNA. Infatti Pirandello, come tutti gli scrittori, racconta il mondo che ha attorno. La sua formazione è stata in Sicilia e ha raccontato il nostro essere siciliani. L’ho riscontrato molto anche in Llosa, che è peruviano ma comunque racconta il sud del mondo. “Appuntamento a Londra” racconta questa ricerca della verità e alla fine non viene data la soluzione. Ogni spettatore uscirà credendo una sua verità, è questa la cosa intelligente dell’autore. Alla fine la verità è quella che si crede.
Luca è un uomo tormentato, alla ricerca di sé stesso e della felicità. Nel corso dello spettacolo, l’identità del tuo personaggio muta di continuo, come la realtà che sembra costruirsi di volta in volta. Com’è stato interpretare un personaggio così sfaccettato e ambiguo, diviso tra la sua esteriorità di uomo d’affari e la sua interiorità tormentata?
Sì, all’inizio Luca è un leone, tracotante, aggressivo, un uomo d’affari sicuro di sé e spregiudicato. Poi, man mano che va avanti la pièce, vengono fuori le fragilità di un uomo irrisolto da molti punti di vista. Non ha assecondato le pulsioni che aveva e ha risposto chiudendosi, unendosi al branco come fanno molti giovani. A volte sembra più facile unirsi al branco e non solo per quanto riguarda l’orientamento sessuale. C’è una fase della vita in cui siamo adolescenti insicuri e allora ci vestiamo tutti allo stesso modo, ci compriamo tutti lo stesso motorino, se sei maschio devi giocare a calcio… Così si sente un po’ di protezione. E poi entra in gioco anche la cultura patriarcale del nostro paese che ci influenza fin da piccoli.
Il tuo personaggio è ossessionato dal lavoro e (apparentemente) sicuro di sé ai limiti dell’arroganza, ma poco in contatto con la sua interiorità. Rappresenta un modello ormai sfortunatamente comune di persone lanciate verso il mondo materiale e poco a contatto con la propria individualità e interiorità?
Questa cosa ce l’abbiamo un po’ tutti, anche se sicuramente oggi si interagisce poco in maniera diretta. C’è il filtro della tecnologia che ci rende più aridi, meno sentimentali. Ci manca il contatto diretto, quindi siamo molto concentrati su noi stessi, sulla nostra carriera. Fortunatamente il teatro, essendo spettacolo dal vivo, qui e ora, è una medicina per questo. Infatti invito tutti ad andare a teatro e a vedere qualsiasi cosa, perché lo spettacolo dal vivo ha ancora questa forza. È una cosa che avviene in quel momento là, ci sono lo spettatore e l’attore e si vivono quelle emozioni in quel momento in maniera diretta, senza filtri. In particolare “Appuntamento a Londra” è un testo che commuove e sconvolge perché ci sono dei passaggi molto forti, molto intimi, in cui le persone si rivedono e per questo arriva. Molta gente si rivede nel mio personaggio per le sue fragilità, il suo essere irrisolto e sempre insoddisfatto.
È stato difficile interpretare un personaggio negativo ai limiti della violenza, contorto e disperato o hai trovato una certa umanità nel personaggio?
Ho avuto difficoltà perché Luca è omofobo e io sono omosessuale, quindi raccontare e far parlare quell’uomo con quella violenza non è stato semplice. Lui usa molto la parola “frocio” e all’inizio mi veniva complicato. È un personaggio costruito benissimo, uno di quegli omofobi tutti d’un pezzo e fascisti. Io ho subìto tanta omofobia e violenza anche fisica. Nel 2008 ero già un attore professionista, ero giovanissimo e vivevo già a Roma. In quel periodo ho ricevuto un attacco omofobo. Ricordo, ero con un amico e ad un certo punto arrivò un gruppo di ragazzi che iniziarono a prenderci a bottigliate. Per me è stato traumatizzante, per un attimo ho pensato di morire. È stato allora che ho deciso di metterci la faccia, di dire basta ed essere un militante in prima linea. Da lì è nato tutto il mio percorso. Quindi raccontare Luca è stato difficile all’inizio da questo punto di vista, poi però l’ho guardato da fuori e mi sono preso anche cura di lui. Oggi, col senno del poi, con l’uomo che sono diventato, questi attacchi omofobi non mi farebbero male come allora perché ho degli strumenti e ho le spalle larghe. Quindi adesso guardo con tenerezza persone come quei ragazzi a Roma. Mi rendo conto che, ad esempio nel caso del mio personaggio, Luca è una persona con delle fragilità e nasconde dei segreti dentro di sé. In realtà lui ha un’omofobia interiorizzata, dal punto di vista della sua sessualità è un uomo molto irrisolto e per questo diventa aggressivo. Quindi gli ho dato quell’umanità che è anche scritta dall’autore stesso. Così la gente può provare tenerezza per quest’uomo, che parte dall’essere sprezzante ma che poi crolla.
Sei molto attivo dal punto di vista civile, nella comunità lgbt+ e nella formazione dei più giovani. Sebbene sia stato scritto nel 2008, “Appuntamento a Londra” è ancora molto attuale nella nostra contemporaneità. Quanto è forte il peso civile di questo dramma?
Questo spettacolo affronta i temi dell’identità di genere e dell’omofobia interiorizzata, che fanno da sfondo al tema centrale della verità. Il testo è stato scritto nel 2008, quindi un po’ di anni fa, ma devo dirti che mi commuove e mi dà molta soddisfazione vedere come di fronte alle battute “comiche”, omofobe, messe lì per far ridere, la gente non ride. Vuol dire che tutto il lavoro di questi ultimi dieci anni fatto dalle associazioni e da noi attivisti ogni giorno nelle scuole e in piazza sta cambiando un po’ la nostra cultura. Questa cosa mi inorgoglisce tantissimo e ne ho la prova ogni sera. Inoltre ci siamo esibiti anche per classi di studenti la mattina e lì mi sono commosso molto. I più giovani sentono molto vicini i temi lgbt+ e l’identità di genere. Io tengo anche corsi a scuola e lì il tema della fluidità sessuale sta venendo molto fuori. C’è un mettersi in discussione sul proprio orientamento sessuale, ad esempio sull’essere demisessuale, quindi anche poco fisici. Si dà molta importanza all’innamoramento sentimentale che va oltre al corpo. I ragazzi sono molto avanti rispetto a questi temi, hanno molto interesse, molta curiosità, perché li vivono in prima persona e come dicevo vanno oltre il corpo, vanno all’essenza della persona che hanno davanti e questa è una cosa bellissima. Per loro il cuore, i sentimenti, l’essenza sono più importanti della fisicità.
Pensi che in questi tempi di discriminazioni e violenza, portare in scena opere come questa possa svegliare l’animo del pubblico?
Peter Brooke dice che si può fare teatro anche solo con due persone, un attore e uno spettatore, quindi il pubblico è protagonista dell’azione teatrale. Quando si va a teatro si partecipa a un rito collettivo, ancestrale, che nasce con l’uomo. Il teatro ha origine con gli uomini primitivi che tornavano nella caverna a raccontare di aver visto un animale e lo mimavano agli altri uomini. Tuttavia, il teatro è anche una forza, una potenza civile. Quindi ben venga che certi temi siano trattati in teatro. Si racconta una storia, lo spettatore la sedimenta e fa le sue riflessioni tornando a casa. Il teatro ha questa forza e per questo non morirà mai. Il teatro ha la forza di porre delle domande, di raccontare la realtà che abbiamo attorno e ha la responsabilità di svegliare le coscienze. Ovviamente il problema è far venire la gente a teatro. Incoraggio sempre a far vedere ai giovani spettacoli belli, con grandi risorse. Io ho cominciato ad amare il teatro perché mi abbonarono a 8 anni e rimasi incantato dai grandi allestimenti con scenografie enormi, costumi stupendi, bravi interpreti. Credo che il teatro debba regalare il sogno. Se tu a un bambino o un ragazzo fai vedere quella roba lì lo acchiappi e lo farai tornare a in sala. Altrimenti si perde uno spettatore, qualcuno a cui raccontare delle storie e in cui far riaccendere anche una coscienza civile che purtroppo spesso è un po’ tiepida, soprattutto in questo periodo storico in cui ognuno sta per conto suo e pensa al proprio orticello e non alla collettività. Invece il teatro ha questo valore collettivo, lì ti trovi con delle persone che non conosci ad assistere a una storia. Purtroppo oggi molti cinema stanno chiudendo perché tutti hanno Netflix e altre piattaforme e c’è sempre più isolamento, mentre il teatro rimane ancora un rito collettivo e civile. Anche l’intelligenza artificiale è un tema con cui dobbiamo fare i conti. È qualcosa che andrà a sostituire l’uomo in molti ambiti e ad esempio per il cinema è un problema perché si possono modificare gli attori sullo schermo come si vuole. A teatro questo non potrà mai accadere perché il teatro è materia viva. Noi attori sentiamo il pubblico e a seconda del pubblico restituiamo determinate emozioni in maniera diversa. È un’esperienza condivisa, non si è passivi in sala.
In “Appuntamento a Londra” si parla molto di identità, di metamorfosi e Mario Vargas Llosa definisce il forgiarsi dell’identità come un atto creativo e ribelle. Credi che l’identità sia un prodotto individuale e consapevole o che segua altre dinamiche fuori dal nostro controllo?
La nostra identità è frutto della cultura in cui viviamo, del nostro passato, della famiglia da cui proveniamo, della nostra educazione. Purtroppo l’identità è costruita anche dalla società e su questo bisogna lavorarci. Per esempio, anche l’appartenenza a un luogo o a una certa categoria, come un lavoro, ci dà una certa identità. Il mio personaggio, Luca, ha cambiato la sua identità diventando un business man. C’è una battuta di Maddalena che dice “mia madre diceva che eri un bravo ragazzo”, invece ciò che noi vediamo è tutt’altro che un bravo ragazzo perché il suo habitat lavorativo l’ha trasformato.
Il tuo personaggio soffre perché va alla ricerca di una vita che non gli appartiene. Secondo te lo fa perché ne sente il bisogno o crede di doverne sentire il bisogno secondo gli schemi della società in cui vive?
Luca è una persona insoddisfatta e infelice, lo dice lui stesso alla fine. Afferma, «io non sono sfortunato, ho avuto molta fortuna nella vita, guadagno tanto, sto bene, ma sono un infelice». È infelice perché è irrisolto, perché non ama, non è libero di essere quello che è. Questo è molto importante, si tratta di un tema che sorge nella pièce e che ai ragazzi piace. Il messaggio è “siate ciò che vi sentite di essere e non rimanete imprigionati dalle costrizioni sociali. Non fatevi ingabbiare dalle costrizioni culturali del vostro paese, seguite il vostro istinto perché la vita è una e va vissuta”.
Nella sua opera, Mario Vargas Llosa indica che Maddalena potrebbe essere interpretata sia da un attore che da un’attrice. Credi che le dinamiche all’interno dello spettacolo cambino a seconda della scelta?
Dipende dall’interprete e dalla sua bravura. Io accanto ho una fuori classe, Lucia Lavia, che nel ruolo di Maddalena è strepitosa. Questa è la prima volta che lavoriamo insieme, anche se siamo amici da dieci anni e ci lega un grande affetto e una reciproca stima professionale. Il nostro rapporto umano esula dall’interpretazione ma lo portiamo comunque in scena e ci permette di giocare sul palcoscenico. Questa complicità che abbiamo noi due nella vita è il quid in più dello spettacolo.
Lucia Lavia è una grande attrice italiana che ha interpretato spesso personaggi molto forti. Com’è stato far scontrare i vostri due personaggi?
Luca e Maddalena, i nostri personaggi, si incontrano e si scontrano. Lucia ha dato un carattere fortissimo a Maddalena, quindi si è creato uno scontro fra titani, che però nasconde un amore tra i due in realtà. Dietro i personaggi ci sono due interpreti che si vogliono un bene dell’anima e che giocano a rappresentare due amici d’infanzia.
Com’è stato lavorare con un regista così giovane ma esperto come Carlo Sciaccaluga, il quale è attore a sua volta? La sua giovane età e la sua esperienza come attore hanno portato alla luce nuove sfumature dell’opera o del tuo personaggio?
Abbiamo avuto la fortuna di essere diretti da Carlo Sciaccaluga, che credo sia uno dei più bravi registi della sua generazione, un uomo colto, raffinato e visionario. È riuscito a tirare fuori da noi attori delle cose bellissime. La capacità di un bravo regista è anche quello, ossia tirare fuori dall’interprete in maniera maieutica, socratica, ciò che lui ha in mente, andando a toccare delle corde intime e personali per poter far venire alla luce il personaggio. Inoltre, il fatto che sia un attore gli dà una marcia in più. Sa come chiederti la restituzione di una sua visione, di un suo desiderio.