Cantautore, chitarrista, compositore, arrangiatore. Luciano Nardozza suona da oltre quindici anni da quando, adolescente – rapito dal suono della chitarra – inizia lo studio dello strumento senza più abbandonarlo.
Nel frattempo prende una laurea in Lingue (Svedese e Inglese) e studia Psicologia a Milano. Si specializza in chitarra moderna in Svezia e in Italia. Partendo da sperimentazioni di vario tipo in formazioni musicali rock-blues, folk, world, jazz-fusion tra Lombardia, Svezia e Basilicata (sua terra di origine), si dedica per lungo tempo a un repertorio originale strumentale, principalmente acustico, che include e fonde i diversi generi esplorati.
In occasione dell’uscita del suo secondo disco “Fuori luogo“, abbiamo intervistato Luciano Nardozza per conoscere meglio uno degli artisti più influenti nel mondo musicale italiano.
Quale è stato il tuo primo contatto con il mondo musicale e come è nata la tua passione?
Ho cominciato a suonare fin da piccolo partendo con il sassofono anche se, appena ho scoperto il mio amore per il rock classico di Jimi Hendrix, sono passato immediatamente alla chitarra imparando da autodidatta e da lì ho continuato ad esplorare tutti gli orizzonti possibili da strumentista, ruolo che ho ricoperto fino a 2 anni fa quando ho deciso di iniziare anche a cantare.
A farmi seguire questa scelta è stata l’esperienza lavorativa che ho fatto con una cantautrice che mi ha fatto conoscere una dimensione della musica di cui mi sono immediatamente innamorato. Fino ad allora il mio punto di riferimento era sempre stata la musica inglese ma, da quel momento, ho cercato di entrare a far parte di quella schiera di cantautori che hanno caratterizzato la musica italiana negli anni.
Direi che i risultati non hanno tardato ad arrivare
Si infatti è proprio di 2 anni fa il mio primo disco “Di passaggio”, un concept album sulla vita di una storia d’amore non in ordine cronologico. Per esempio si iniziava con la presa di coscienza della storia finita poi si va all’idillio, al tradimento, all’innamoramento e così via.
Fortunatamente è andato molto bene, ha vinto anche qualche premio, e mi ha permesso di cambiare quasi totalmente la prospettiva con cui guardavo la musica in generale facendomi innamorare sempre di più della scrittura dei brani in italiano. Dieci dei brani che ho scritto in quel periodo sono proprio in questo secondo disco che ho deciso di chiamare “Fuori luogo”.
Un inizio da cantautore veramente invidiabile e all’apparenza privo di difficoltà vista la velocità con cui sei entrato nelle classifiche dei cantautori più ascoltati. Hai mai incontrato qualche ostacolo o è stato veramente un percorso privo di difficoltà?
Guarda in realtà all’inizio è stato abbastanza semplice, non tanto per l’assenza di ostacoli ma perché il primo disco “Di passaggio” è venuto molto spontaneo. Ho cominciato a scrivere anche in seguito ad una crisi personale e ho deciso quindi di mettere su carta tutto quello che stavo provando in quei momenti di difficoltà.
Inoltre devo ammettere che al tempo non è che fossi particolarmente preoccupato. Come quando fai qualcosa per la prima volta e non ti fai delle aspettative e pensi solo che andrà come andrà. Ecco io ero in quello stato mentale e mentre scrivevo ero solo contento di poter mettere su carta tutti quei pensieri senza preoccuparmi di come sarebbe andato il disco.
Sono contento di essere rimasto con questa impostazione mentale quindi continuo a non aver paura di dire ciò che penso nei miei brani e, al limite, la paura più grande che mi può prendere è che le persone non capiscano ciò che voglio dire o che non comprendano i non detti.
Parlando proprio di non detti. “Beata ingenuità” è probabilmente uno dei tuoi brani più famosi sia per il testo in sé che per un ritmo originale che si va però a concludere quasi all’improvviso al termine della canzone. Come mai hai scelto questo tipo di conclusione per il brano?
È stato un po’ per andare in controtempo rispetto all’ascoltatore con un finale in levare. Questo perché mentre è vero che la canzone ha un che di melodico, la sua componente di maggior impatto è il suo essere cruda e quasi aggressiva. Per sottolineare queste due componenti abbiamo quindi scelto per un finale in grado di trasmettere nel modo più potente possibile queste sensazioni.
E per arrivare a questo stile nella composizione dei testi ti sei ispirato a qualche altro cantautore o hai cercato di creare qualcosa di esclusivamente tuo?
All’inizio della mia carriera da cantautore avevo come riferimento la musica inglese e i classici della musica italiana, come Battiato e tutti gli artisti di quegli anni, quindi ho cercato di sviluppare uno stile tutto mio. Quello che spesso mi viene detto è che l’impostazione dei miei brani, per metrica e ritmi, somiglia molto a quella che usa Max Gazzè nei suoi testi. Il problema è che solo dopo l’uscita del mio primo disco ho cominciato a guardarmi intorno per scoprire i cantautori italiani moderni quindi giuro che la somiglianza a Gazzè è solo un caso!
Comunque l’influenza dei testi anglosassoni su di me e sulla mia musica resta molto forte quindi credo di aver istintivamente cercato di trovare un punto d’incontro che potesse prendere il meglio sia dalla musica inglese che da quella italiana.