Luca Aversano, un professore (con)diviso fra università e primedonne
Il professore Luca Aversano, che si occupa della direzione artistica del Teatro Palladium oltreché di insegnamento e diffusione culturale in ambito musicologico e di discipline dello spettacolo, ci ha ricevuti nel suo studio per parlare di Primedonne, di oggi – come la rassegna in collaborazione con il Teatro dell’Opera di Roma – e del passato, ma soprattutto della gestione di un teatro unico a Roma: il Teatro Palladium.
Esistono ancora oggi le primedonne?
Le primedonne ci sono anche oggi. Le individuiamo attraverso i sistemi di comunicazione di massa. Anche il cantante lirico oggi cura molto più l’immagine, a cominciare dalla fisionomia e dall’aspetto fisico fino ai particolari della promozione della attività. Naturalmente alla base ci deve essere una qualità vocale e una professionalità di un certo livello.
Ma ci sono tanti altri fattori per la creazione del mito della primadonna.
Oggi in Italia abbiamo giovani cantanti molto brave, fra cui Veronica Simeoni che il 18 dicembre eseguirà un concerto di musiche francesi proprio al teatro Palladium: il primo di una magnifica rassegna dedicata alle primedonne.
E la rassegna Primedonne ha intenzione di evidenziare lo sviluppo che queste artiste possono dare alla vita musicale, e di spettacolo in generale, in Italia oggi. Vuole essere anche una vetrina pensata proprio per questo vecchio e antico mito della primadonna in teatro, che c’è sempre stato da quando è nata l’opera e sempre ci sarà.
Perché come diceva Fedele D’Amico “nell’opera il personaggio è la sua voce”, per cui c’è una supremazia del cantante su tutti gli elementi dello spettacolo. Questo non dovremmo mai dimenticarlo.
C’è ancora oggi la supremazia del cantante?
Oggi un po’ meno. Il regista è più predominante. La componente visuale è importante. Ma la voce resta il primo aspetto, soprattutto nel teatro d’opera Italiano.
Lei è curatore del libro “Mille e una Callas” insieme a Jacopo Pellegrini: un libro trasversale, nel senso che si occupa dell’argomento non solo da un punto di vista musicologico, ma anche delle discipline dello spettacolo con lo scopo di identificare la “primadonna” Callas.
La trasversalità dell’approccio di questo volume corrisponde a un filone di ricerca musicologico?
In realtà la musicologia da questo punto di vista è più indietro rispetto agli studi teatrali per quanto riguarda l’interprete. Perché è una disciplina che si fonda sul documento e sulla ricerca di archivio, in Italia e in Europa in generale.
Rispetto ai testi del teatro, nella musica è diverso. Per il teatro la performance ha un interesse maggiore, mentre per la musicologia solo ultimamente è riscoperto il ruolo, la valenza e l’importanza dell’interprete.
Le nuove estetiche esecutive passano attraverso gli interpreti?
Importante è studiare e occuparsi dell’hic et nunc della performance, del suo aspetto fuggevole. Questo rende però difficile un approccio scientifico: perché il materiale è fluido e impalpabile rispetto a una partitura. Anche il giudizio sugli interpreti è variabile in base a una serie di fattori differenti.
La difficoltà è trovare un metodo adatto per l’analisi della performance musicale, senza scadere nella critica impressionista.
Perché ancora un libro su Maria Callas?
Perché il libro nasce da un convegno di Roma Tre in occasione del trentennale della morte. Quello che doveva essere un volume di atti si è ampliato con contributi che hanno arricchito il quadro del personaggio in un’ottica ampia e trasversale. Una sorta di spaccato della cultura del Novecento.
Il volume è arrivato in ritardo, ma è certo più completo di quanto non sarebbe stato il volume degli Atti del convegno.
Lei è anche responsabile della collana: quali sono i prossimi titoli?
Sono previsti altri titoli. Uno in progetto è sul Novecento musicale in relazione alla letteratura. Il taglio della collana, che da direttore vorrei dare, è di osservare la musica come un fenomeno culturale in relazione ad altri ambiti della società.
Non questioni musicologiche molto tecniche, ma studi che guardano alla musica da una prospettiva più ampia. Naturalmente l’oggetto di studio deve avere un certo spessore per essere spunto di riflessioni profonde che abbiano come sfondo sempre l’aspetto musicale.
Però la prospettiva non è ridotta ai mostri sacri della tradizione classica. L’importante è che ci sia profondità culturale e artistica, su questo non bisogna transigere.
Non si deve legittimare l’idea che tutto va bene. Occorre distinguere i livelli di ogni cosa, non evitare di dare giudizi. È un approccio che ha anche una vocazione universitaria.
Come funziona la gestione del teatro Palladium?
Il teatro è gestito da una Fondazione a matrice puramente universitaria. E dell’Università Roma Tre riflette la molteplicità delle discipline.
Il programma del teatro finisce per recepire gli stimoli dei dipartimenti e delle persone che si occupano di organizzare gli eventi all’interno della sua stagione. Io mi occupo di più della parte musicale e teatrale.
Per quanto riguarda il pubblico: occorre avvicinarlo o avvicinarsi?
Io posso dare la mia versione. Cerco sempre di avvicinare il pubblico e non il contrario. Però non sono mancate anche iniziative che possano andare incontro ai gusti del pubblico. Se arriva qualche proposta più popolare, si accetta. Non è semplice gestire un teatro e soprattutto cercare una identità e creare un pubblico fedele.
Qui abbiamo più discipline, per cui anche il pubblico varia in base agli interessi. È difficile comunque trovare un codice di linguaggio unitario per rendere unitario anche il pubblico.
Tuttavia l’identità del Palladium è questa: una vocazione pluridisciplinare. Per questo ha un pubblico diverso ogni sera. Non bisogna fossilizzarsi nella ricerca di un’unica strada. Forse è eclettismo: ma chi dice che non sia un valore?!
L’importante è che gli spettacoli destino interesse e siano di livello.
L’equilibrio fra le diverse parti – prosa, musica, cinema – che è la vocazione del teatro di una fondazione universitaria come viene mantenuto?
C’è un certo equilibrio, senza che ci siano delle regole scritte.
È un equilibrio naturale che riflette il coordinamento fra i vari dipartimenti e le diverse discipline. C’è il vantaggio di avere una stagione variegata: è forse il teatro più ricco come offerta e come livello a Roma. Anche perché diverse personalità contribuiscono alla organizzazione della stagione. È una rarità, la ricchezza dell’Università: abbiamo maggiore autonomia rispetto alle pressioni esterne.
È possibile conciliare gli aspetti culturali e quelli commerciali? Ricerca e didattica hanno rapporti con il teatro?
Certo ci sono state varie occasioni di osmosi. Per esempio un progetto su Shakespeare e Roma: un convegno che ha trovato poi al Palladium la “casa” per lo spettacolo, realizzato interamente dagli studenti, relativo agli argomenti trattati nel convegno stesso.
Così lo stesso vale per Primedonne, la rassegna di concerti realizzata in collaborazione con il Teatro dell’Opera, che ha avuto anche degli appuntamenti seminariali. Ci sono delle collaborazioni laterali rispetto agli eventi realizzati. Lo scambio fra i due luoghi – università e teatro – c’è sempre. Io cerco sempre di favorirlo, dove posso.
Se dovesse, per gioco, scegliere di ospitare una prima assoluta o un personaggio del passato, chi sceglierebbe?
Naturalmente la Callas. Le proporrei la Medea di Cherubini e poi proietterei il film di Pasolini, per rimanere interdisciplinari. Dovrebbe poi venire anche a lezione, però!
Può darci qualche anticipazione sui prossimi progetti?
Sì, stiamo pensando alcune cose per la prossima stagione. Ma non faccio anticipazioni! Sono progetti che collegano il mondo universitario al mondo del teatro con sostegno ai giovani talenti per permettere loro di sperimentare nei diversi campi artistici le proprie capacità.