Il panico
di Rafael Spregelburd
traduzione Manuela Cherubini
regia Luca Ronconi
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci A J Weissbard
suono Hubert Westkemper
trucco e acconciature Aldo Signoretti
con (in ordine alfabetico) Riccardo Bini, Francesca Ciocchetti, Clio Cipolletta, Fabrizio Falco, Iaia Forte, Elena Ghiaurov, Lucrezia Guidone, Manuela Mandracchia, Valeria Milillo, Maria Paiato, María Pilar Peréz Aspa, Valentina Picello, Paolo Pierobon, Alvia Reale, Bruna Rossi, Sandra Toffolatti
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Luca Ronconi ha portato in Italia l’autore Rafael Spregelburd. Il panico è il secondo spettacolo del Maestro tratto dalla raccolta “L’epatologia” del 47enne argentino, dopo La modestia (debuttato nel 2011). Il panico è andato in scena al Teatro Piccolo di Milano dal 15 gennaio al 10 febbraio.
In questa pièce contemporanea si parla della morte in vita, della comunanza territoriale tra vivi e morti. Della trascendenza nelle sue forme più banali. Il regista si esprime così riguardo allo scrittore “riesce a costruire una forma che è a mio avviso assolutamente aggiornata, in sintonia con la nostra percezione della contemporaneità, ma utilizzando forme eterne…c’è sempre una grande leggerezza, non c’è niente di aggressivo o acido…E’ anche divertente, anche se sempre con intelligenza. Nei testi di Spregelburd si avverte che tutto ha una sua ragione, e che tutto ha una sua verità. Ma di quale verità si tratti, questo non è immediatamente conoscibile“.
Lo spettacolo si apre su una scena anomala, che crea un immediato effetto di distorsione tra la nostra concezione del palco e la prospettiva rappresentata. Si tratta di geometrie sghembe, nessuna curva, soltanto angoli. Le superfici ampie sono monocrome distese di niente. Nessuna caratteristica di decoro. Il palco è costituito da un ampio supporto inclinato, che rimarrà tale per l’intera durata dello spettacolo. Scelta forte e connotante che determina i movimenti e il modo di abitare lo spazio dei protagonisti, allenati a mantenersi in equilibrio in una situazione di sforzi muscolari non ordinari. Una pendenza necessaria. Enormi, imponenti pareti di cartone bianco tagliano in ogni scena il perimetro calpestabile, calando dall’alto.
Le scene in totale sono dodici e sono tutte dominate da colori acidi, solfurei. Dal Bianco follia al Verde nausea. I colori della paura e del male di vivere. Gli oggetti di scena (divani per lo più) si muovono come fantasmi lungo carrelli invisibili spostandosi geometricamente lungo rette ordinate.
La prima si svolge in un appartamento in cui si è consumato un omicidio. L’agente immobiliare che si sta occupando della vendita del luogo mostra lo spazio vuoto ad una probabile acquirente, una ballerina. Si crea un clima di sospetto, in cui non si comprendono immediatamente i ruoli. Il fantasma della vittima, Emilio, si aggira nella stanza cercando di conversare con le due donne che non lo vedono. Solo una scala ripida connette il piano terra con un immaginario primo piano che noi spettatori non vediamo.
Nella seconda scena inizia il vero e proprio intreccio. Una famiglia composta dalla vedova di Emilio, Lourdes, e i figli Jessica e Guido, avuti da un’altra relazione, parla di una chiave scomparsa che aprirebbe la cassetta di sicurezza del morto. La sua ricerca è il motore della storia.
Dalle prime due scene avvertiamo la dimensione, la nebbia che avvolgerà l’intero spettacolo. I personaggi appaiono spezzati, schizofrenici, maniacali, perversi in una continua affermazione di un’insofferenza nei confronti della vita. La forte dimensione di disagio pervade le parole, le tensioni, le reazioni e i gesti. I movimenti d’aria sono nervosi. Si lanciano i primi indizi di quella che sarà una ricerca a vuoto, una ricerca senza possibilità di fuga e senza arrivo.
La recitazione degli attori è quella ronconiana di sempre che spezza le frasi, modifica con continue altalene di toni i ritmi delle parole, una recitazione enfatica che sottolinea il percorso di pensiero dei personaggi. Un declamare poetico ben caratterizzato che offre quella robustezza e solidità anche alle dichiarate fragilità dei caratteri. Le reazioni fisiche diventano parole, i gesti le accompagnano. Questo tipo di recitazione è la forza di uno spettacolo come questo in cui il senso della tragedia è trasmesso con la leggerezza dell’ironia, attraverso perturbazioni negli atti e nelle parole di chi interviene. Panico declamato dalla frenesia e lo spezzarsi degli accenti.
La ben nota attrice Maria Paiato (al cinema in Lezioni di volo, L’estate di mio fratello, Lo spazio bianco, Io sono l’amore), nel ruolo di Lourdes, è forte, intensa e mai scontata, un’azzeccata matrona borghese che cerca difendere con difficoltà il proprio ruolo di fagocitante dissimulatrice.
La 24enne Jessica, figlia di Lourdes, interpretata da Francesca Ciocchetti, è invece l’unica voce che raggiunge un grado soddisfacente di autenticità, una specie di ingenuità dettata dalla sua mancanza di grazia e giovinezza immatura, quasi istintuale.
Nelle sei scene successive assistiamo a momenti di paranoia collettiva: in ognuna compaiono nuovi personaggi, nuovi spazi (rappresentati da una parola proiettata su una parete laterale, formula minimale del linguaggio per identificare luoghi già sperimentata ne Il sogno).
La terza scena, quella delle ballerine, ci annuncia che il testo è una specie di farsa della commedia umana contemporanea. Uno sguardo distaccato che coglie le contraddizioni e le forzature del presente, mixando generi diversi dal solenne al noir, al grottesco. Lo stesso Spregelburd cita David Lynch tra le contaminazioni della sua scrittura. Lo sguardo ironico e cinico sulle nostre convinzioni è urlato: Elyse, l’insegnante di ballo, coordina un gruppo di ballerine su una musica solenne e tombale con una coreografia minimale, senza armonia, che fa il verso alla danza contemporanea. Si deride il nostro modo psicanalitico di interpretare il mondo e l’arte quando l’insegnante rimprovera alle ballerine di non saper fare il padre e le ballerine non capiscono. Elyse continua ad affermare di essere un’artista e di essere stata con le sue opere a Berlino (un po’ come accade nelle conversazioni attuali tra artisti “alternativi”) e impone l’ammirazione delle proprie allieve.
Una scena meravigliosa si svolge nella Banca Tornquist. Lourdes e i suoi due figli qui incontrano la funzionaria Cecilia Roviro. La signora è piuttosto fuori asse, ascolta ma non recepisce la richiesta riguardo alla possibilità di aprire la cassetta dopo la morte di Emilio, divagando sulle proprie disgrazie personali. Il clima sfocia nell’ironico e si avverte un piacevole humor noir. A contornare questo momento di surreale mancanza di contatto tra i protagonisti c’è l’apparizione della segretaria Roxana, procace bionda dai movimenti tutt’altro che sciolti. L’unico consiglio ricevuto è di recarsi da una sensitiva.
La sensitiva della scena successiva è una donna esile e minuta, ma soprattutto dai movimenti convulsi che comunica con i morti e cerca di piegare una forchetta con la forza del pensiero. Sembra che il contatto con il morto, Emilio, comunque sia impossibile.
Passiamo poi per la terapia famigliare e il carcere, luoghi in cui si cerca di arginare l’anomalia, un’anomalia che al contrario straborda e prende pieno possesso dei personaggi, svelando la putridità della relazione tra Lourdes, Emilio e i figli. Nel corso di una festa organizzata da Jessica il delirio nevrotico è ovunque. La sensitiva copula con il 18enne Guido il quale poi proverà un’esperienza sessuale con il travestito Ursula. Nel frattempo Jessica cerca di tradurre con le compagne di ballo il testo di una conferenza in tedesco inventando parole casuali. Anabel, una ballerina, trova nello sciacquone del bagno una chiave ma la getta senza darle importanza.
Nel finale sulla coreografia di Elyse, Emilio racconta un’antica leggenda egizia di un dio che per non rinunciare alla sua amata la richiama dall’aldilà.
Sembra di essere di fronte ad un labirinto. Nonostante l’abile costruzione delle scene per cui il Maestro è insuperabile, restano dei dubbi circa il testo. Non convince del tutto. Risulta spezzato e vuoto di certi legami, di relazioni, di struttura empatica. Alla fine si avverte un senso di inconsistenza rispetto al racconto, per cui si perdono i motivi, i motori della rappresentazione. Forse il carattere ibrido dello spettacolo, per cui non si può parlare né di surreale né di nonsense né di tragedia né di commedia, per cui non esiste diretta consequenzialità tra le scene sprofonda un po’ nell’opaco. Il racconto della leggenda finale non aggiunge mistero, ma resta piuttosto effimero e fermo. Il profumo dell’eternità in quest’opera è inafferrabile.
L’unico spettacolo di Ronconi visto finora che non vola.