L’immaginario onirico di Vincenzo Restuccia: fotografie di denuncia sociale.

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Vincenzo Restuccia è un giovane fotografo che ha fatto della provocazione il suo timbro caratterizzante, il suo strumento d’espressione.

Ho incontrato Vincenzo qualche giorno fa a Trastevere, abbiamo chiacchierato della sua amata terra, la Sicilia, dell’estetica stereotipata che incombe nella nostra società e della voglia di voler scardinare gli schemi imposti dai mass media per far riflettere le persone, per orientare gli sguardi verso tematiche difficile da trattare.

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Vincenzo è un figlio del sud, nelle sue opere si avverte questa componente così forte ma si sente anche la necessità di manifestare il dissenso verso politiche nefaste che hanno deturpato un territorio ricco di bellezza.

Le fotografie di Vincenzo possono far storcere il naso, possono essere criticate, ma sicuramente non lasciano indifferenti. L’arte, diceva Carmelo Bene, non deve mettersi al servizio dello stato e della mediocrità, l’arte deve desacralizzare e decomporre il passato per costruire un futuro possibile.

Vincenzo vorrei cominciare questa intervista parlando del tuo percorso, della strada che, partendo dalla Sicilia, ti ha portato a Roma. Che cosa rappresenta per te la fotografia?

 Sin da bambino l’immagine è qualcosa che mi ha sempre appassionato, creavo delle situazioni mentali rispetto a ciò che mi circondava e ne costruivo un mio personale universo. Presi la decisione di iscrivermi ad una scuola di fotografia a Catania ma fu un approccio spicciolo, non mi soddisfaceva pienamente, così decisi di affrontare una scelta: lasciare la mia terra per trasferirmi a Roma. Tra le varie scuole che avevo visionato optai per la Scuola Romana di Fotografia, volevo intraprendere un percorso che mi permettesse di trasformare la mia passione in un mestiere. La scuola fu ottima ma mi fermai dopo un anno e mezzo di studi, il mio carattere e le mie esigenze non potevano adeguarsi alla schematizzazione accademica, appresi gli elementi tecnici di cui avevo bisogno, ma sentivo che mancava qualcosa. Nel periodo in cui frequentavo i corsi ho iniziato ad utilizzare la sala pose, ma il tipo di fotografia che volevo trattare non aveva spazio nel percorso accademico che avevo intrapreso. Nella scuola non trovavo spunti per approfondire la mia personale visione dell’immagine, così cominciai a guardarmi intorno e fu la scelta giusta perché nel momento in cui lasciai gli studi iniziai ad intravedere la mia carriera professionale. Cominciò la collaborazione con Cinecittà Luce, per cui ho fotografato i festival del cinema di Cannes e di Venezia e ho dato avvio al mio impegno lavorativo per Alta Roma, la manifestazione dedicata alla moda della capitale.

Ovviamente i legami con la mia terra d’origine sono forti, in Sicilia riesco a produrre, la bellezza di quei luoghi è una perenne fonte d’ispirazione per le mie opere, purtroppo non condivido la mentalità che ancora è insita nella mia terra, specie nei confronti di chi come me ha un lavoro creativo che si pone al di fuori dalle comuni schematizzazioni sociali.

Alcune delle tue opere, in un certo senso, si possono definire “oscene”, che cosa vuoi dimostrare attraverso questa cifra stilistica che hai adottato?

 L’osceno, il non bello è uno strumento ricettivo, un catalizzatore di attenzione.

In Saloon Bambole, uno dei miei progetti fotografici, ho voluto ritrarre una donna con qualche chilo in più per dimostrare allo spettatore che esiste una sensualità al di fuori dello stereotipo di bellezza offerto quotidianamente dai mass media. Io sono contro i cliché convenzionali della moda e mi oppongo ai canoni estetici imposti dalla nostra società. Saloon Bambole vuole essere un manifesto contro l’anoressia, amo provocare e aver ritratto una modella fuori dai soliti canoni di bellezza è un segnale forte che ho voluto imprimere al messaggio che le foto portano con sé.

 Vorrei che mi parlassi del progetto intitolato Cancer City, mi hanno molto affascinato le immagini protagoniste di questo lavoro.

 Cancer City è un progetto iniziato due anni fa. Tutt’ora è in fase di lavorazione, per me è una sorta di box sempre aperto e in continua evoluzione. Cancer City riguarda una tematica sociale ed è una vera e proprio denuncia artistica. Il progetto affronta le drammatiche conseguenze dell’industrializzazione, in particolare parla delle vittime dell’amianto. L’immagine simbolo si intitola proprio “Vittime dell’amianto”, lo scatto è frutto di una collaborazione, la mia idea ha avuto il supporto di Vincenzo Medica e Castellino che hanno realizzato i manichini di cartapesta.

La foto intitolata “Future Malformate” è un atto di accusa contro il polo industriale siciliano che si è espanso attorno al triangolo petrolchimico di Augusta, Priolo e Melilli. In questo territorio, negli ultimi anni, ci sono stati molti casi di nascite malformate, i media non trattano l’argomento per non interferire con gli interessi dei poli industriali coinvolti, per questo motivo ne ho voluto parlare per portare alla luce un argomento taciuto di cui nessuno proferisce parola.

Il soggetto dello scatto è una donna incinta (n.d.r. mancavano solo quattro giorni dal parto) che porta una carrozzina vuota. In volto ha una mascherina che vuole simboleggiare le future nascite malformate. La prossima estate scatterò una foto che rivisiterà questa immagine, ho in mente di raccontare la donna dopo il parto, ci sarà una bambina che prende per  mano la sua mamma.

 In cosa consistono le fasi di realizzazioni di un tuo scatto, a quanto ho capito sei una sorta di deus ex machina, ti occupi di ogni minimo dettaglio..

 Mi piace rischiare e forse c’è un po’ di imprudenza in questo ma è il mio timbro caratterizzante. Mi occupo di tutto nella costruzione di un’immagine, dalla scelta dei modelli alle scenografie, per terminare poi il lavoro in fase di post produzione. Dedico molto tempo anche alla scelta delle location. In un mio scatto intitolato “Amiantide” sono giunto in una delle più grandi discariche di eternit che esistono in Italia. Le mie fotografie hanno un’impostazione teatrale e scenografica, il teatro è sicuramente una grande fonte di ispirazione.

 Vincenzo, secondo il tuo modo di vedere, quale ruolo ricopre l’artista nella nostra società?

 Ho una duplice considerazione di me stesso nella società: da un lato esisto, dall’altro non mi reputo parte di essa. Mi rattristo di quello che mi circonda perché vedo una società al limite del marcio, non riesco a trarre degli spunti positivi. Nelle mie opere cerco di dare un messaggio per far ragionare le persone, per rendere visibile la corruzione che vedo intorno a noi. I miei lavori non sono mai fini a se stessi ma hanno sempre qualcosa da insegnare, non lasciano indifferenti. Gioco con la provocazione e mi piace provocare. Le mie fotografie spesso contengono maschere perché sono un riflesso della società. Mi piace utilizzare anche le bambole perché certe volte credo siano più espressive di tante modelle. La vera bellezza di una donna si misura nelle sue espressioni, nel suo portamento.

In cosa sarai impegnato prossimamente?

 Sicuramente continuerò il lavoro su Cancer City, ci sono delle proposte interessanti giunte da Berlino e spero si possano concretizzare. Cancer City avrà una realizzazione video e credo sia questo l’obiettivo che per ora vorrei raggiungere.

Per approfondire il lavoro di Vincenzo Restuccia: http://www.restucciart.com/

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