PORTE CHIUSE di Jean Paul Sartre
traduzione di Filippo Gili
con
Piergiorgio Bellocchio, Vanessa Scalera, Liliana Massari, Massimiliano Benvenuto
“Sono morto troppo presto. Non mi è stato concesso il tempo per compiere i miei atti”.
Questa affermazione di Garcin, interpretato da Pier Giorgio Bellocchio, uno dei protagonisti di Porte Chiuse, pièce in un solo atto in scena al teatro Argot Studio di Roma fino al 10 dicembre, che racchiude in sé la polpa amara del dramma, ma anche, a suo modo, una materia sarcasticamente molle, come una sorta di chewing-gum masticabile in eterno.
L’idea di base architettata da Sartre è semplice e spiazzante: la scena si svolge in un moderno hotel. Non si tarda ad intuire che in realtà si tratta della rappresentazione, anzi della sostanza resa visibile e ironicamente abitabile, del più antico e tenace degli incubi: l’Inferno.
Senza effetti speciali di fuoco e fiamme e diavoli più o meno danteschi con tanto di forcone e bava alla bocca. Piuttosto un Inferno in versione ergonomica, quasi sobrio, tanto più terribile quanto più credibile, vicino sia dal punto di vista dello spazio che del tempo ai nostri moderni palazzotti superaffollati.
I personaggi ci sono presentati da un cameriere acuto e disincantato,interpretato da Massimiliano Benvenuto, tendente ad un umorismo asprigno. Ci fa fare conoscenza con il già citato Joseph Garcin, giornalista e uomo di lettere di Rio, e con due donne, Estelle Rigault,interpretata da Vanessa Scalera, “donna di mondo” parigina, e Inès Serrano,interpretata da Liliana Massari, un’impiegata delle Poste.
Tre “poveri diavoli”, in apparenza, che appaiono lì per caso. In realtà, riflettendo un po’, emerge il loro potere di rappresentare, quasi loro malgrado, e forse anche nostro malgrado, l’umanità moderna. C’è la componente intellettuale e quella pratica, l’integrato e l’eversivo, il sognatore e il ragionatore, il cinico e l’idealista. Un po’ del tutto e un po’ del niente che costituisce la base delle infinite potenzialità della vita: le scelte, quelle che fanno la differenza. E appunto, proprio alla fine si trovano i personaggi del dramma.
Con divertita e cruda naturalezza veniamo informati che i nostri eroi sono in realtà dei morti. Il loro destino è quello di subire ora un supplizio adeguato. A questo punto, ed è questo uno dei punti cardini della pièce, tenersi addosso le maschere ha davvero poco senso. Conviene giocare, perché pur sempre di gioco continua a trattarsi, a volto scoperto. Ciascuno mette a nudo se stesso ed i propri crimini. Ognuno cerca nella propria sincerità un ponte, qualcosa che sia finalmente in grado di superare le barriere e i fossati, facendolo sentire simile, affine agli altri. Fosse pure nel dolore di una colpa condivisa. L’urlo della coscienza prelude al gesto di tendere le mani per cercare ed offrire un aiuto.
Ma il responso di Sartre, prima ancora che quello dei guardiani dell’Hotel-Inferno, è perentorio ed impietoso: non c’è possibilità di condivisione né di aiuto reciproco. Anzi, la pena vera, reale, ostinata, nell’Inferno concreto e in quello immaginario, non è negli strumenti di tortura, nei forconi e nei pali incandescenti.
“L’enfer, c’est les autres”, scrive Sartre.
Gli altri, lo sguardo altrui che illumina implacabilmente le nostre più segrete colpe. La sofferenza corporea è poca cosa, tutto sommato, all’interno delle Porte Chiuse di questo lavoro teatrale. Le ferite più acute e profonde sono quelle morali. Garcin, giornalista idealista, si chiede se la sua condotta di vita è stata quella di un uomo che ha obbedito alle sue idee fino in fondo, o, semplicemente, quella di un inetto che si è lasciato condurre dalla corrente. La risposta a questo enigma non può darsela da solo. Sarebbe vano oltre che intimamente comico. Non può però rivolgersi a Estella, che lo ama e sarebbe pronta a dargli ragione sempre e comunque, pur di compiacerlo. Chiedere a Estella sarebbe ancora una volta come chiederlo al proprio sé, alla vanità, alla paura, alla menzogna.
Non resta che Inès, quindi, molto più lucida e dura. Inès però non può che giocare il ruolo dell’aguzzina. Pur essendo lei stessa colpevole, non ha scelta. La sua sola libertà è quella di contrastare ininterrottamente Garcin, incitandolo a provare a convincerla, a mostrarle che è ed è stato un uomo giusto. Il forcone rovente di Inès sono le parole. La ragione che conficca battuta dopo battuta nel petto di Garcin, e, di ritorno, volta per volta, nel proprio.
Garcin si trova ad avere via libera, la strada sgombra verso la fuga, la solitudine. Potrebbe darsi alla macchia, libero, incondizionato. Ma si blocca. Resta fermo, impietrito. Bloccato dal terrore come davanti ad un baratro. I tre dannati si ritrovano fatalmente riuniti. Inseparabili, per sempre.
Pier Giorgio Bellocchio, Vanessa Scalera, Liliana Massari, Massimiliano Benvenuto hanno dato corpo e voce ai personaggi sartriani, in un allestimento estremamente concentrato,uno spettacolo ben riuscito e godibile dove i movimenti sono stati studiati con cura dal regista Filippo Gili; creano una serie di azioni che ritma lo svolgimento di un testo estremamente complesso, un esempio di teatro emotivo e razionale al tempo stesso, la rivincita del teatro di parola e d’autore sulla superficialità dei nostri tempi.