LEHMAN TRILOGY – Testo di Stefano Massini – Regia di Luca Ronconi – Con: Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Paolo Pierobon, Fabrizio Falco, Raffaele Esposito, Martin Ilunga Chishimba, Denis Fasolo, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti, Laila Maria Fernandez

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In un testo fluviale, la storia dei fratelli Lehman, che da emigrati poverissimi dalla Baviera all’Alabama della metà del XIX secolo diventano l’emblema del capitalismo finanziario d’assalto, attraverso la banca che prese il loro nome (Lehman Brothers) e finanziò la colonizzazione verso il West, creò Wall Street, prosperò durante il New Deal e il boom degli anni ’50 e la deregulation reaganiana, fino al crollo, improvviso e inopinato, del 2008.

Una vicenda che sa di leggenda epica fin dal suo racconto. E che Stefano Massini, autore che di economia, per sua stessa ammissione, sa poco o niente, fa diventare una sorta di racconto biblico, in cui alla saggezza dei Padri fa da contraltare la discesa apocalittica di figli e nipoti, verso un abisso di inconcludenza ipocondriaca. Un testo che è del tutto nelle corde del gigantismo intellettuale di un regista come Ronconi, attento da sempre alla contemporaneità della parola e della rappresentazione ma anche a un “too big to fail” che fu il motto proprio della Lehman; Ronconi si accosta al testo con un’umiltà, peraltro, inaspettata, preferendo la parola alla gigantografia scenica: in un palco nudo, in cui spiccano solo elementi stilizzati, di un design modernista a colori tenui, si aggirano i suoi attori, che appaiono come spaesati da quel vuoto, eppure lo riempiono con la loro statura e la prolissità verbale. I registri vocali, dapprima cantilenanti come in una lettura sacra, diventano via via più drammatici, ansiogeni, fino a parossistici scambi dialogici che hanno, a volte, del raffinato umorismo alla base.

Il pubblico può ascoltare, perdendosi nelle parole ripetute, nei gesti netti, nei passi di danza accennati, distraendosi e poi ritornando con la mente, in un continuo rimpiattino con il proprio passato più recente, sorridendo perfino di certi passaggi giocosi. E’ il Novecento l’imputato, il secolo breve in cui siamo diventati adulti e abbiamo massacrato due intere generazioni con guerre insensate, siamo tutti noi, ma quasi non ce ne accorgiamo. Così come, alzati al termine della seconda parte, ci sembra strano siano passate ben 5 ore. Le immagini di quegli uomini, partiti commercianti al servizio di una comunità rurale e finiti avidi speculatori noncuranti dei propri simili, ci trapassano il cuore ma sanno scivolarci addosso, come una fotografia troppo lucida che non resta appiccicata. A Ronconi è riuscita la magia di una rappresentazione di una delle più grandi tragedie della contemporaneità vivida e toccante, eppure leggera e lieve, lontanissima dalla locandina di una saga familiare, come avrebbe rischiato di essere: per il regista, recentemente scomparso, non avrebbe potuto esserci epitaffio migliore.

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