Diamond è uno street artist di Roma che ha iniziato ad operare in strada venti anni fa, nel 1993. In questi giorni il Museo di Trastevere e la galleria Varsi dedicano a questo eclettico artista due mostre che raccontano i molteplici aspetti di un’attività creativa iniziata in seno ai graffiti.
Ho incontrato Diamond qualche giorno fa, la nostra lunga chiacchierata ha sfiorato molteplici argomenti dove ho compreso quanto questo fenomeno nato oltreoceano stia attraversando un intenso periodo di cambiamento.
Stefano hai alle spalle venti anni di lavori, è dal ’93 che operi in strada, cosa è cambiato in questi anni e come ti rapporti alla nuova generazione di street artist che si sta affacciando oggi nel panorama artistico internazionale?
È cambiato tutto, quando ho iniziato nel ’93 c’erano i graffiti nient’altro. I graffiti rappresentavano la massima espressione di ribellione, ho fatto tante pazzie per passione, mi sono intrufolato nei depositi dei trasporti pubblici, una volta ricordo di essere entrato nei depositi delle corriere regionali, era esaltante sapere che il proprio pezzo avrebbe percorso le strade di tutta Italia. Questo, per me, rappresentava il massimo dell’avventura dove c’era anche un elemento fondamentale di ricerca artistica, ogni cosa che producevo aveva un determinato senso, durante l’adolescenza è stata tutta la mia vita.
Qualche tempo dopo è iniziata una parentesi fastidiosa perché ho subito per i miei lavori in strada un processo, in quel momento mi sono sentito smarrito perché ho perso ogni punto di riferimento. Il disegno è stato sempre qualcosa d’imprescindibile nella mia vita, una pratica che va al di là dei graffiti, un rito privato, che definirei quasi autistico, ricercato fino allo spasmo.
Dopo la fase giudiziaria sono tornato a dipingere ma non era più la stessa cosa, avvertivo un disagio e in quel momento ho capito che dovevo tornare in strada in maniera diversa. Ho cambiato nome, ho cambiato tecnica ed ho iniziato a ritagliare stencil su carta adesiva. Far capire anche alla vecchia guardia di artisti che continuava a fare graffiti l’importanza dello stencil non fu semplice, mi dicevano che era solo una grande perdita di tempo e invece proprio il tempo mi ha dato ragione.
Assistiamo ormai ad una istituzionalizzazione della street art, gallerie, collezioni, musei si stanno sempre più affacciando verso questo fenomeno, cosa ne pensi?
Stiamo attraversando una sorta di boom della street art in questi ultimi anni, potrebbe essere interpretato come un segnale positivo ma io sono abbastanza scettico.
Perdonami Stefano però oggi ci troviamo in un museo per parlare del tuo lavoro, come s’inserisce allora la tua attività in questa cornice istituzionale?
Nel museo io sto celebrando un lavoro che è nato e morto nelle strade di Roma e che è stato documentato nelle pagine di un libro pubblicato dalla casa editrice Drago che si occupa prettamente di street art. Quello che a me non piace è il tipo di istituzionalizzazione che è strettamente legata all’amministrazione capitolina che commissiona opere a persone che non conoscono la storia dei muri di questa città. C’è un background di persone che lavora bene e che dalle commissioni viene esclusa. I muri di Roma ne risentono perché c’è molta improvvisazione. Non voglio dare adito a lamentele ma credo che questo fenomeno si stia un po’ troppo commercializzando.
Parliamo nello specifico della tua mostra, ho notato che ci sono più chiavi di lettura. C’è una parte di documentazione fotografica, ci sono i tuoi lavori grafici e ho osservato che hai esposto una matrice di legno da cui hai tratto l’incisione di un tuo disegno, quale scelte hai affrontato per portare questi documenti al museo di Trastevere?
La mostra vuole essere una testimonianza dei miei lavori che risalgono a tre anni fa e che oggi non esistono più. La scelta è stata quella di voler esporre immagini riguardanti l’edizione del mio libro, le fotografie sono estrapolate dalle mie opere in strada che a loro volta sono l’elaborato finale dei disegni che ho preparato per il libro. Esporre in un museo è l’occasione per riconoscere un lavoro che altrimenti rimarrebbe ghettizzato. La street art è un fenomeno che non può morire in strada ma che deve impossessarsi delle sedi museali perché c’è la necessità di restituirgli la giusta dimensione contemporanea.
Vedo molto spesso ripercorrere dagli street artist repertori dell’iconografia classica, quali sono i tuoi riferimenti visivi?
Il mio primo riferimento sono i maestri della Secessione Viennese, guardando in Italia invece amo in particolar modo le opere di Duilio Cambellotti. Cerco di attingere a molteplici fonti ma senza essere troppo citazionista, provo ad estrapolare dei concetti base che riescono a dare quel sentimento stilistico a tutta l’opera. Di passioni ne ho molte penso soprattutto all’iconografia dei tatuaggi e all’arte giapponese, fonti estremamente eterogenee da cui attingo per realizzare i miei lavori. L’influenza dei maestri del passato è fondamentale per un artista, all’accademia ho studiato storia dell’arte, un corso che mi ha molto appassionato grazie al quale ho compreso tante espressioni e correnti creative.
Guardando oltreoceano, invece, quali sono i tuoi maestri?
Su tutti adoro i lavori di Mike Giant, lui è un grande maestro come Chuck Sperry perché è stato il testimone di un passaggio epocale. Credo che come affermava Picasso un vero artista non è colui che copia ma colui che ruba.
In ogni caso le mie radici appartengono al padre del liberty Alfons Mucha, le sue opere fanno parte della mia educazione visiva che ho ricevuto sin da bambino grazie alla passione di mia madre.
Stefano come vivi la caducità delle tue opere, il sapere che un tuo lavoro giorno dopo giorno inevitabilmente morirà in strada…
Io trovo che sia qualcosa di estremamente romantico, quando passo davanti ad una mia opera ricordo il giorno in cui l’ho attaccata, come mi sentivo e quello che provavo mentre lo stavo facendo. Giorno dopo giorno verifico lo stato dei miei lavori è come assisterle mentre muoiono, le regalo alla strada e la strada ne fa quello che vuole. Questo per me significa essere più cittadino degli altri, il poster è mio, ma anche della collettività, un dono che faccio alla cittadinanza. La mia mostra s’intitola A Ruina Resurrexit perché prima o poi le mie opere risorgeranno dalla rovina in un luogo come un museo che è il posto consacrato alla conservazione della memoria.
Prossimamente alla galleria Varsi saranno esposti i tuoi lavori grafici, in questo caso qual è lo spunto da cui sei partito?
Varsi è una giovane galleria che ha dato avvio al suo calendario di eventi con una mostra dedicata ad un mostro sacro dei graffiti: Skeme. Nella mia mostra svelerò una sorta di scrigno segreto perché le tavole esposte le ho prodotte nell’arco di tre anni per pura passione e non con l’intento di volerle raccogliere in un progetto espositivo. Sono una sessantina di esemplari, alcuni sono diventati grandi murales altri invece vivono di vita propria e costituiscono una sorta di gabinetto grafico che mi piace sfogliare e custodire nel mio cassetto. Sono lavori prodotti esclusivamente a penna e racchiudono diversi immaginari dal burlesque al fetish passando per il bondage. Alcuni disegni esprimono motivi sociali, sono questi temi che ho poi estrapolato per i miei murales.
Non vorrei parlare di progetti futuri ma in conclusione Stefano se dovessi raccontarmi la tua prossima sfida cosa ti viene in mente?
La facciata di un intero palazzo su cui lavorerò prossimamente a Giardini Naxos in Sicilia.
Una bella pezza!
INFORMAZIONI TECNICHE
Diamond – A Ruina Resurrexit
mostra a cura di Elena Paloscia
29 maggio – 7 luglio 2013
Museo di Roma in Trastevere
Piazza S. Egidio 1/B
info: www.museodiromaintrastevere.it
Per informazioni sulla mostra alla Galleria Varsi: www.galleriavarsi.it