Il peso delle circostanze, delle azioni istintive, di quelle non ragionate, follia. Il peso del tempo e il suo valore, i canti, la pace, le foglie, gli alberi, esseri umani, tutti diversi. Le scelte. Dipende tutto da noi. Sullo scorrere del tempo, per non perderci il necessario.
Uno spettacolo da portare in pancia, dalla quale entra l’essenza, si metabolizza, ci si ferma e si pondera. Al Teatro Le Sedie di Roma, zona Labaro, quattro giorni intensi, in cui La scelta del tempo, dal 28 al 31 gennaio riesce a catalizzare il pubblico. Una produzione CRTscenamadre con il contributo di Nuovo IMAIE, in collaborazione con Alcantara Teatro.
La scelta del tempo nasce da un’idea di Guido Giordano, per la regia di Daniela Giordano. Vede in scena la stessa affiancata da Laura Mazzi. Di sottofondo un coro alpino, il Chorus Familiae, formato da Silvia Castorina, Donatella Giordano, Guido Giordano, Gabriele Scognamiglio, Veronica Scognamiglio e Anna Giordano.
Buio. Con il buio si crea la dimensione voluta. Rumori, bombardamenti, mitraglie. L’entrata a teatro è inquietante, un trepido ci angoscia. Ma le torce illuminano quel poco che basta, si prende posto e ci si tranquillizza.
Buio. Daniela Giordano appoggiata alla parete, con la torcia si illumina dal basso. Solo il volto in evidenza. Prende possesso della sua voce. Monologo. Pensieri liquidi invadono lo spazio. Noi non facciamo altro che seguirla dentro la poetica che avvolge.
Frasi. Luce e ombre. Interstizi, natura, alberi come persone, con le loro diversità. Li riconosce perché ne conosce i nomi. Ci vuole destrezza. Ogni nome una forma. Paragoni, metafore che ci avvicinano ai tronchi e alle chiome.
Poesia, luoghi, boschi. Note di pianoforte si aggiungono all’atmosfera. Sentirsi parte del tutto. Tutto in uno, fondersi. L’ascolto è importante. I canti degli alpini si intervallano, la fisarmonica a bocca è suono delicato. Quadri. Fotografie in bianco e nero proiettate su chi canta.
Si parla della guerra. Fatti storici, sensazioni, freddo, uomini allineati. Madri, figli, bambini, pargoli, studenti, soldati, assassini. Panni stesi e insanguinati su una carrucola a due fili. Le rime sono un’eco. Due voci si intersecano. Rumore, musica. Immagini, istantanee di dolore.
Scene. C’è chi interpreta un’infermiera, Laura Mazzi, e c’è chi prende la parte di una ricamatrice, Daniela Giordano. La guerra è banale. La sigaretta è una carezza nostalgica su un amore raggiunto per essergli vicino. Una pausa per ricordare i nomi dei morti e dei feriti.
Le pezze sono invece decorate. Ricerca. I nomi dei punti da ricamo, infinitesimali, si infilano nella memoria. Tutti differenti come le sfilature. Lavoro manuale e a macchina. Tempo. Ci vuole tempo e la sua valorizzazione. Il punto è passione, storia che si tramanda. Tutto dipende da noi.
Il desiderio di un pranzo per riunire la famiglia. Una tovaglia per 25 persone, ma non si hanno le idee chiare. Le diatribe familiari complicano. Frenano l’impulso. Non si vuole trovare un compromesso, una tregua. Meglio. Non si combatte, non si lotta. La pace dentro è più importante.
Questione di controtempo. Ragionamenti sulla guerra e sulla pace. Liberarsi dalla semplice irragionevolezza, per seguire l’istinto. Follia. Non si cerca il confronto per aggiustare. Ci si immobilizza. Privazione.
La sensazione è quella di esser presi per mano. Guerra antica, guerre di oggi. I percorsi della vita, quasi, sono ciò che al pubblico viene proposto. Sui rapporti umani. Una presa di coscienza del fare, creando le giuste circostanze. Perché tali ci rendono migliori.
La guerra è banale, basterebbe soffermarsi. Ascoltarsi, dialogare. Tutto dipende da noi. Il coraggio è amare la vita. Sulla poetica di Hikmet si conclude un immaginario da vedere, da ascoltare. Intimo e riflessivo. Alla vita.
La pace quale significato assume?