Bella di una perfezione maniacale, persino in tarda età, come ci sottolinea Shaw confrontandola con la Duse, Sarah Bernhardt è stata una delle più grande artiste del XIX secolo. La sua esistenza è stata costellata di unioni eccezionali, con uomini e donne, e di aneddoti curiosi, ma soprattutto di debutti fortunati. Ha interpretato personaggi anche molto distanti fra loro, spingendosi fino all’Amleto, e creando in ogni occasione un evento culturale tout court, come ci ricordano i magnifici manifesti di Mucha.
La suggestiva scenografia bianca di Francesco Scandale incornicia questo piccolo gioiello di drammaturgia “da camera” incentrato sugli ultimi giorni di vita di Sarah Bernhardt. Sei arcate impreziosite da disegni liberty separano in due lo spazio scenico, isolando sul fondo una stilizzata rappresentazione del mare e del sole disegnata da un originale disegno luci dello stesso regista.
I colori si alternano simulando tutte le possibili combinazioni cromatiche, mentre sulla pedana centrale salgono a turno i due protagonisti di questa divertente biografia, interpretando di volta in volta ruoli differenti: le mille maschere che, pirandellianamente, indossiamo ogni giorno. Il rischio insito nella scelta di raccontare in teatro una vicenda autobiografica, per di più tanto nota, è quello di cadere nella aneddotica vacua o, peggio, nella santificazione a ogni costo se non nella mitizzazione malinconica.
Con La Divina Sarah siamo invece di fronte a un’arguta trasposizione che lascia spazio non tanto, e non solo, alle vicende personali della Bernhardt, ma anche alla sua filosofia di vita, al suo approccio all’esistenza, quella vitalità irrefrenabile che la spinge a “fingere”, interpretare la “sua” parte fino alla fine. Siamo di fronte alle sue piccole manie, alle paure e alle arroganze di una eterna fanciulla, alla malinconia – poca – e alla ironia – questa molta e assai ben dosata.
Colpisce, poi, il finale poetico
Mentre la morte è vissuta attraverso la figura di Marguerite Gauthier, teatro nella vita, invece del teatro nel teatro, la fine della diva è sublimata da un ritorno alla giovinezza, un regresso ai quindici anni, che rendono il momento più impalpabile e meno drammatico. In questo modo la morte assume tratti seducenti, come quella del Principe Salina. Questa è forse la chiave più interessante per comprendere chi, come la Bernhardt, ha saputo rinnovarsi sempre, consacrando – molto più della Duse – il suo volto al cinema.
La delicata macchina scenica è coordinata dall’occhio attento e rigoroso della regia di Marco Carniti che sfrutta tutte le armi della citazione, come nella scena di Dumas, per delineare un gioco a due più vicino allo storicismo, quand’anche i dialoghi siano, al contrario, moderni e rapidissimi, giocati tutti sul piano dell’ironia bonaria e della battuta sagace. Fatto salvo, naturalmente, per la centralità della figura di Sarah, la divisione fra le parti è estremamente equilibrata, permettendo a entrambi di sviluppare il proprio personaggio e dargli uno sviluppo credibile oltreché logico.
Per La Divina Sarah, la divina ha le sembianze di Anna Bonaiuto che impiega tutta la sua arte per delineare una figura non solo credibile, ma anche estremamente originale. Le movenze, le intonazioni e perfino i piccoli dettagli – come uno sguardo di traverso, un sorriso, una lamentela borbottata – sono studiati con il fine di trasmetterci una diva esuberante e a volte capricciosa, ma anche intelligente, manager di se stessa e mai autocommiserata.
Accanto a lei c’è Gianluigi Fogacci: un talento di trasformismo e di tempi comici. Tiene testa alla diva, senza temerla, ma anzi dominandola con dolcezza, tenerezza e grande rispetto. Proprio come il personaggio gli richiede. Anch’esso, senza perdersi una sola battuta, accompagna lo spettatore in tutti i dettagli più parodistici della vita della Bernahrdt.
Le musiche di Paolo Daniele contrappuntano in maniera equilibrata i differenti sentimenti, mentre i preziosi abiti di Maria Filippi possiedono un taglio tradizionale, ma esaltato dalle nuances: su tutto regna il viola, che non è certo il colore preferito dagli attori. Ma questa divina sa ridere di se stessa e delle superstizioni con grande arguzia.
La Divina Sarah
da “Memoir di Sarah Bernhardt” di John Murrell
adattamento di Eric-Emmanuel Schmitt
traduzione di Giacomo Bottino
con Anna Bonaiuto e Gianluigi Fogacci
regia Marco Carniti
scenografia Francesco Scandale
costumi Maria Filippi
musiche Paolo Daniele
luci Marco Carniti
fino al 15 aprile al Teatro Vittoria