Dal cinema al teatro, torna al Rossetti di Trieste La classe operaia va in paradiso, per la regia di Claudio Longhi e sceneggiatura di Paolo Di Paolo, liberamente tratto dall’omonimo film di Elio Petri con la sceneggiatura di Ugo Pirro.
Chi ricorda il film ne ricorderà certamente le opinioni divisive che ne accompagnarono l’uscita nel 1971, nel pieno degli Anni di Piombo. Basti pensare che solo nel 1969 vi furono in Italia 145 attentati dinamitardi; nella sola Lombardia 400 episodi di violenza di matrice neofascista, uno ogni due giorni.
Gli anni ’70 sono anche gli anni delle lotte operaie. E’ del 1970 l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e la conquista delle 40 ore settimanali, gli aumenti salariali e l’acquisizione del diritto a tenere le assemblee sindacali in orario di lavoro.
Un clima economico, politico e culturale di un Paese diviso più che mai. Sono gli anni delle prove generali che porteranno al sequestro di Moro.
Un’Italia spezzata in due con le carovane di migranti del sud che in blocco vanno a stabilirsi nelle periferie operaie del nord.
Sono anche gli anni di un profondo cambiamento sociale. La gente aumenta la propria partecipazione nella vita pubblica e grazie a questo iniziano le grandi conquiste. Arriva l’istituto del Referendum; la legge sul divorzio, la regolamentazione dell’obiezione di coscienza, l’aborto e successivamente la legge Basaglia.
Tutti questi sono passaggi fondamentali per comprendere e apprezzare La classe operaia va in paradiso. Un contesto storico che spiega comportamenti e urgenze dello spaccato operaio di quegli anni.
Il cast è un grosso punto di forza di questo spettacolo, in scena la squadra è composta da Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo.
A vestire i panni del protagonista Lulù Massa, l’uomo macchina che nel film fu Gian Maria Volontè, qui troviamo Lino Guanciale. Credibile e versatile. Istrionico ma feroce.
Lulù Massa è un uomo che si vanta di essere una macchina del lavoro. Stakanovista, odiato dai suoi colleghi e amato dai datori (padroni) ai quali non chiede nulla. Amante del cottimo, disposto a lavorare svariate ore di fila per poi sprofondare nell’oblio della televisione, una volta a casa.
Dalla fabbrica al mondo della smart economy (Deliveroo, Foodora, Just Eat, Amazon, per citare le più famose), non sembra essere cambiato molto. Alienazione compresa.
Dalle tematiche dello sfruttamento del lavoro, alle morti bianche, passando per la mancanza di tutele arrivando all’alienazione, i raffronti generazionali sono tanto infiniti quando le riflessioni che emergono.
Operazione che è un punto di forza che richiede una curva d’attenzione molto alta e pericolosamente a rischio. Il rischio è infatti quello di non riuscire ad abbracciare pienamente anche chi, per ragioni anagrafiche, di alcuni passaggi non ne conosce la genesi o non ne comprende a pieno il senso. Tradendo, forse, un po’ quella che fu l’idea di Petri: fare un film che non fosse intellettuale e che potesse parlare a tutti.
Nel complesso chi scrive ha apprezzato l’operazione e la bravura messa in scena, senza però nascondere la sensazione che andasse asciugato qualche elemento di divagazione a beneficio di focus più precisi.