Il termine giochi di identità ben si presta a questo allestimento de La bisbetica domata prodotto da LuganoInScena, Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano e LAC Lugano Arte e Cultura in cui il “play” diviene la chiave principale di interpretazione che sembra innescare un meccanismo di specchi identitari, un torneo (o un match) di ruoli sfumati fra i due poli di uomo/donna.
Se prendiamo per assodato che tutto quel che accade in palco è solo una commedia cui assiste il vecchio ubriacone (alter ego di Petruccio nella sua rozza bestialità) allora Tindaro-Caterina non è altri che un paggio – come cita il testo – o un giovane attore destinato alle parti femminili, come accadeva realmente all’epoca di Shakespeare. Se però si va oltre il semplice meccanismo di scatole cinesi e ci si sofferma sui sottili parallelismi e sui silenziosi messaggi che la movimentata regia di Andrea Chiodi interamente giocata sulla parola – sia essa sonora o muta – vuole trasmetterci, allora si apre un universo nuovo e più complesso. Al centro del dilemma, allora, non c’è più soltanto il carattere bisbetico delle donne e la presunta misoginia shakespeariana (ma se fosse una denuncia invece?!), non c’è più l’identità biologica dell’attore e quella del personaggio che viene interpretato, né la ricerca filologica di una compagnia maschile secondo l’estetica drammaturgica e le consuetudini teatrali in vigore in Inghilterra all’epoca della composizione, cioè alla fine del 1500.
Il nucleo propulsore dell’azione è la libertà, la sua affermazione o la sua negazione. Parola e azione, apparenza ed essenza risultano allora i reali poli fra cui si destreggia l’abile mano del bardo e quella altrettanto abile del regista che ne ha suggerito – se non apertamente mostrato – tutti i lati più nascosti. Chiodi lo fa con l’abilità di chi sa mettere a proprio agio l’attore anche nelle dinamiche più difficili, ossia quelle quotidiane. Compie il miracolo di montare un meccanismo a squadre (ogni attore è riconoscibile dal numero, ma cambia il nome del personaggio sulle spalle: rigorosamente di paillettes!) dove non ci sono vincitori né vinti, ma tutti concorrono all’ottimo risultato finale: due ore e un quarto di spettacolo da cui ci si alza ancora con il desiderio di vedere come andrà avanti la storia.
Non c’è un momento di noia, mai un momento di stasi che non sia dinamica e funzionale all’equilibrio generale degli eventi. Ma il vero capolavoro è la scioltezza e quasi naturalezza – nei codici teatrali si intende: qui non siamo in una soap opera! – degli interpreti. Alcuni rivestono più panni con ammiccante gagliardia e goliardia, stupendo per le trovate fisiche e – ça va sans dire – vocali, eccezion fatta per la drag queen/Bianca di Rocco Schira, la vera preda della bramosia maschile, che fa dell’immagine e del movimento fisico (così come del suono del violino) un mezzo di interpretazione assai loquace e benissimo riuscito. Christian La Rosa riveste la parte servo furbo con stupefacente destrezza e con un piglio anche più padronale di quanto ci si aspetti – segno che i poli non sono mai così distanti – mentre Igor Horvat è un innamorato elegante e una vedova spassosissima.
Massimiliano Zampetti sa essere divertente come padre di Caterina, ma altrettanto azzeccato nelle vesti del servo di Petruccio, così come Walter Rizzuto sa cambiare senza soluzione di continuità dall’innamorato stizzito, al musico sino alla beffa del finto padre in maniera eccellente. Ugo Fiore è un giovin signore dal francese spigliato e dall’atteggiamento sognante che alla fine ha la meglio sugli altri corteggiatori. Fin qui siamo nell’ambito della commedia, con i meccanismi di travestimento, rovesciamento dei ruoli, beffe e tradimenti propri già di quella latina. Addentrandosi nelle dinamiche di Caterina e Petruccio si nota, invece, come il piano drammatico sia diverso e permetta al regista e agli interpreti di usare un altro alfabeto interpretativo: più canzonatorio, irriverente e aggressivo per la prima, più anarchico, grossolanamente sottile e a tratti brutale per il secondo.
Chi si fa carico dei due ruoli più complessi, dal punto di vista psicologico, sono Tindaro Granata e Angelo Di Genio: eccezionali è dire poco. Insieme trovano un’intesa a tratti sublime, che sfocia in una lotta sorda, bugiarda, traditrice eppure straordinariamente vera, come solo gli amori più sinceri e distruttivi sanno essere. L’amore fra Caterina e Petruccio è infatti il migliore fra tutti gli altri, non perché la bisbetica è stata infine addomesticata dal Maschio, ma perché il marito ha saputo accordare il giusto spazio all’idea di maschio e di femmina – che era in vigore all’epoca di Shakespeare – senza tradire il carattere combattivo e ribelle della moglie, da lui amata proprio perché tale.
Complica tutto che a incarnare Caterina sia un uomo? Che Tindaro voglia suggerire una revisione dell’idea di maschio e femmina oggi? Che questa Bisbetica voglia far riflettere sull’identità tout-court? Si esce con tante risate e con qualche interrogativo in più, che non guasta mai!
LuganoInScena, Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura
LA BISBETICA DOMATA
da William Shakespeare
traduzione e adattamento Angela Demattè
regia Andrea Chiodi
con Tindaro Granata, Angelo Di Genio, Christian La Rosa, Igor Horvat, Rocco Schira
Massimiliano Zampetti, Walter Rizzuto, Ugo Fiore
scene Matteo Patrucco, costumi Ilaria Ariemme
musiche originali Zeno Gabaglio, disegno luci Marco Grisa
Tindaro Granata è stato tra i finalisti al Premio Ubu 2018