Andrea Cosentino torna per la terza volta a Fucina Culturale Machiavelli. Apre questa nuova stagione con il suo Kotekino Riff, uno spettacolo sul teatro che smonta il teatro.
“Questo è uno spettacolo brutto”
Cosentino ti avverte subito. Il palco è cosparso in modo confuso da oggetti, gli unici veri punti di riferimento per lo spettatore sono un microfono e un contrabbasso.
Entra in scena con una maschera da Pulcinella e nel monologo introduttivo te lo preannuncia: questo è uno spettacolo brutto. Il pubblico in sala ride, ma forse e soprattutto perché non è preparato a ciò che sta per avvenire. Andare a vedere uno spettacolo teatrale è un azione che si porta dietro inevitabili aspettative, direttamente connesse a come ci rappresentiamo il teatro, a che cos’è per noi il teatro. La maggior parte di noi si aspetta una storia, dei personaggi e un messaggio. E che sia comico o tragico, ci aspettiamo sempre qualcosa di serio. Perché il teatro è un luogo serio, dell’arte e della cultura, dove alla fine ci portiamo a casa qualcosa – o almeno la sensazione di qualcosa – su cui ragionare.
Cosentino parte da questa consapevolezza, dalle concezioni precostruite del pubblico per smontarle, per riderci su e nel contempo decostruirle e analizzarle.
Non c’è storia e non ci sono personaggi, ma solo un attore sul palco che in modo apparentemente caotico afferra oggetti di scena, improvvisa piccoli sketch, si butta in monologhi di comiche machiette scollegati dal resto. Quello che ne risulta è una giostra da mal di mare di comicità che è sì divertente, ma allo stesso tempo colpisce lo spettatore come qualcosa di randomico, di disorganizzato, privo di forma che organizzi il contenuto. In tre parole: privo di senso. È cabaret, ma lo è in un modo amorfo: uno spettacolo di varietà infilato in un frullatore.
Il pubblico è disorientato. Divertito sicuramente, intrattenuto per tutto il tempo, ma in definitiva disorientato. È Cosentino lo sa. Ha sotto la sua ala di attore e drammaturgo abbastanza esperienza da sapere come la messa in scena influenza lo stato d’animo degli spettatori, come sondare l’umore del pubblico dal palco, come portarlo nel luogo dove lui desidera. Cosentino lo sa e pare quasi intrattenuto a sua volta dalla confusione del pubblico, come se la parodia messa in atto non riguardasse solo il teatro come mezzo espressivo ma il pubblico stesso e le sue idiosincrasie.
La verve dell’attore esaltato da se stesso e lo snobismo del pubblico radical chic diventano i principali bersagli della satira di Cosentino, in un gioco delle parti che rimpalla di continuo da una parte e l’altra del palco, chiedendosi in definitiva la domanda più importante: che cosa ci facciamo qui?
“È importante che del teatro qualcosa rimanga”
Dopo un’ora e qualcosa cosa è rimasto. Nel suo essere meta teatro, lo spettacolo ci chiede in parte anche questo. Perché facciamo teatro, perché andiamo a teatro e alla fina di tutto cosa ci rimane.
Se non resta proprio nulla che rimanga almeno il titolo, scherza Cosentino. Ma è un ridere caustico il suo, che fa trasparire al pubblico quel dubbio sotterraneo che muove l’intero spettacolo. Il dubbio pietrificante che questo sia un esercizio inutile, privo di qualsiasi valore. Un momento vuoto dove si incontrano la vanità dell’artista, la sua volontà di essere applaudito nella sua espressione autoreferenziale, e la superbia del pubblico, il suo desiderio di potersi sentire intelligente.
“Il teatro è bello quando è finito”
Cosentino risponde a tutte queste domande con altre domande. Lo spettacolo è finito, il pubblico applaude. Poi Cosentino ci ripensa: manca ancora qualcosa prima di poter chiudere il sipario, manca un messaggio. Fruga sul pavimento nel mucchio scomposto degli oggetti di scena e quando si volta verso la platea ha la marionetta di un accattone con sé. Le luci si abbassano, dal microfono la voce del personaggio arriva metallica e glaciale.
Nel buio atmosferico comincia il monologo dell’accattone. Cala un assoluto silenzio, mentre la marionetta sciorina una dopo l’altra quei quesiti che fino a quel momento sono volati sopra le teste del pubblico, tenuti leggeri leggeri nell’aria dalle risate. Adesso però non si ride più. L’artista accattone ti chiede soldi per la sua arte, lo fa in modo patetico e in modo aggressivo. Ti chiede cosa vuoi tu dall’arte per poterlo ricompensare con quei soldi. Ti chiede cose l’arte. È diretto ed è efficace. Uno schiaffo in faccia. È colpisce ancora di più proprio perché preceduto da un’ora di risate apparentemente gratis, che sembravano non chiederci mai di pensare ma che colpivano solo alla pancia.
Alla fine l’ultima nota è amara. E Cosentino lascia che tu esca dal teatro con quell’umore, che di quella serata ti sia rimasta quell’immagine.