Francesca De Sapio è attrice, regista, insegnante e anche scrittrice. Alle spalle ha una vita piena di esperienze emozionanti, vissuta fra Italia e Stati Uniti assieme ai grandi nomi del cinema e del teatro del Novecento, ma seguita ad avere davanti a sé una sconfinata voglia di esercitare la sua arte di narratrice dell’esistenza, attraverso tutti i linguaggi espressivi.
Con il suo libro Per Ogni Persona Incontrata ci regala un prezioso ricordo delle sue passioni e dei suoi incontri e ci racconta, proprio in occasione dell’uscita del volume per D’ORO COLLECTION, qualche dettaglio in più sulla sua vita e sul suo modo di intendere l’Arte e il mestiere di attrice.
La sua vita è costellata di incontri eccezionali e di esperienze artistiche incredibili, ma se dovesse ricordare l’inizio di questa strada da cosa o da chi vorrebbe partire: un ricordo, un oggetto, una persona?
Vorrei partire da un libro: la biografia di Anton Cechov.
E poi certamente dal saggio di fine anno che feci al liceo linguistico: fu L’importanza di essere Onesto di Oscar Wilde, la mia prima regia e interpretazione, Lady Bracknell. Avevo solo 17 anni. Dopo l’euforia, la felicità assoluta durante le prove e poi la replica, andai a letto e mi venne la febbre a quaranta per il dolore che fosse finita.
È stato quello il momento in cui ho capito che non avrei mai smesso di fare teatro. Per fortuna quando lo confessai a mia madre che aveva visto lo spettacolo, lei mi disse: “Si, credo tu abbia ragione. Eri veramente brava…”. La conferma di mia madre, che era una critica molto severa, mi è stata di grande sostegno. Sono stata fortunata.
Poi grazie a mio padre e alla sua seconda moglie, sono approdata in America, perché a lui, che era architetto, era stato commissionato un lavoro in quel Paese. E lì si è aperta una nuova strada ancora.
Nel suo lavoro ha preferito il ruolo di attrice o quello di insegnante?
È impossibile scegliere: l’attrice insegna all’insegnante e l’insegnante all’attrice. E poi la tradizione Stanislavsky-Strasberg non distingue tra i due ruoli. Basterebbero due esempi: Vachtangov, giovane regista del teatro di Mosca, lavorava con Sulerjisky e gli studenti aspiranti attori, mentre faceva regie e sviluppava la tecnica; Michael Cechov, attore protagonista dei testi teatrali di repertorio, sempre del Teatro di Mosca, inventava esercizi per gli attori più giovani. E così Meyerhold con la sua ‘Biomeccanica’. Lo stesso vale per Maria Ouspenskaya, insegnante di Strasberg al “Laboratory Theatre” di New York, che era un’attrice in film hollywoodiani degli anni ’20 del Novecento. E ancora Boleslavsky. Strasberg era un attore e regista ai tempi del suo “Group Theatre”, che è nato negli anni ’30, molto prima dell’Actors Studio.
Dustin Hoffman, Ellen Burstyn, Harvey Keitel, Estelle Parsons, Eli Wallach, Al Pacino, Arthur Penn, Sidney Pollock, ed altri a turno, dopo la morte di Strasberg moderano la ricerca degli attori all’Actors Studio. Questo per dire che la distanza fra un ruolo e l’altro non esiste, ma uno si fonde nell’altro e viceversa.
Cosa ha stimolato di più la sua sete di scoperta e di conoscenza del suo universo interiore?
Attraverso la letteratura russa: Anton Cechov, Fedor Dostoevskij, Gogol. Un amico di mia madre mi regalò una versione ridotta de I fratelli Karamazoff per il mio compleanno, avevo dodici anni, da allora non ho più smesso di leggere. E poi Lee Strasberg che ha sviluppato la tecnica Stanislavsky e Sulerjisky Vachtangov, per cui indirettamente, di nuovo, la Russia. Come potevo non sposare la tradizione? Per me insegnare equivale a creare, scoprire nuovi modi per arrivare a comunicare. Per me insegnare non esiste, esiste la trasmissione di una tecnica che crea teatro, scrittura, regia. Addirittura alcuni dei miei attori hanno scoperto di essere pittori o di avere attitudini verso la musica.
Quanto cambia il ruolo di attore e di insegnante dagli Stati Uniti all’Italia?
In America nei primi anni ’70, gli attori amavano la ricerca, anche dopo essere diventati famosi. La ricerca era la ragione per cui era stato creato l’Actors Studio nel 1947, dopo che il Group Theater, si è dovuto sciogliere a causa delle persecuzioni politiche del senatore McCarthy.
Ma la tradizione Stanislavsky-Strasberg è anche sempre stata in una sorta di conflitto, più o meno grave, con l’industria del cinema. Però bisogna aggiungere che la differenza sta anche nel fatto che in America, essendo il cinema un’industria, c’è più lavoro, il mestiere dell’attore è considerato necessario, non un lusso, o un mestiere che non garantisce la sicurezza.
Le famiglie dei giovani Americani, che scelgono il mondo dello spettacolo, non lo temono come in Italia.
Quindi, per quanto la competitività sia dura e l’eccellenza richiesta, e ai tempi di Lee Strasberg veniva approfondita a livelli notevoli, lì, si aveva la possibilità sia di lavorare che di continuare a nutrire il proprio talento, con la ricerca.
Per quanto oggi, nel ventunesimo secolo, anche in America il mondo dello spettacolo è in crisi, tuttavia ciò non avviene come in Italia. Noi che in passato, fin dal 1945, nell’immediato dopo guerra, abbiamo fatto “scuola” al cinema nel mondo, oggi produciamo 40 film all’anno in confronto ai trecento del passato. Il discorso è ampio, le ragioni tante e sono aumentate con il tempo. La guerra in Italia era maestra di Vita per attori e registi. Io dico ai miei attori, in laboratorio, che le bombe e le file per il pane avevano sostituito il rilassamento e le memorie sensoriali; ti svegliavano alle priorità della vita, che un vero attore non dimentica mai, nello studiare “le circostanze date” dei suoi personaggi. Ma poi oltre la guerra, non dovremmo dimenticare che Visconti era uno Stanislavskiano, con la collaborazione di Gerardo Guerrieri, che all’accademia d’arte Drammatica, fino ai primi anni ’60, s’insegnava Stanislavsky, che Paolo Stoppa, Romolo Valli, Lina Morelli, Gian Maria Volontè erano attori Stanislavskiani.
Ma purtroppo noi non siamo mai diventati un’industria, pur avendo dato vita, dopo la seconda guerra mondiale, a un cinema indipendente, che ha fatto scuola nel mondo.
La prima ragione per cui non siamo mai diventati un’industria, a differenza della Francia, potrebbe essere “il piano Marshall”.
Avevamo perso la guerra e l’America ha imposto di distribuire un certo numero dei propri film, molto più grande dei nostri. Le sale di proiezione erano invase dal cinema americano. Era la nuova forma di colonialismo.
E il grande Alberto Sordi ne faceva la satira. Poi l’avvento delle TV private ha causato i primi danni. Oggi, l’avvento di internet: i social network, Sky, lo streaming, Netflix, Amazon. Per quanto magici, gli “Smartphones” stanno dando il colpo di grazia.
Il rapporto dei costi del biglietto e gli abbonamenti ha spaventato i produttori. Anche quelli più coraggiosi e creativi hanno paura. E noi del pubblico ci siamo impigriti, abituati a contentarci di uno schermo magari non piccolissimo, pur di non doverci stressare nel traffico.
Molti di noi hanno rinunciato alla meravigliosa immersione, avvolti dal grande schermo. Un’immersione che aveva salvato me, quand’ero bambina che scappavo di casa, per sedermi in quelle sale piene di fumo, dove il fascio di luce del proiettore mi sembrava l’atto di qualche bacchetta fatata.
Per quanto riguarda l’insegnamento, specialmente oggi, preferisco insegnare in Italia, perché gli italiani, pur meno predisposti alla disciplina e spesso proni a considerare lo studio non così necessario, hanno una mente potenzialmente più aperta, un’immaginazione più fertile. Una volta stimolati, imparano ad amare la disciplina. La loro tendenza anarchica, una storia più antica nel DNA, una volta sposata alla disciplina della tecnica Stanislavsky-Strasberg, li rende più imprevedibilmente creativi.
E poi in realtà, come ho già accennato, il mio scopo non è mai stato insegnare, lo dico sempre a miei attori, ma stimolarli a creare una corrente che faccia rinascere il nostro mestiere attraverso la scrittura, la regia, la recitazione, per poter far sviluppare un gruppo che racconti questo nuovo mondo, che includa la coscienza civile, l’umanità, senza escludere la critica sociale o una nuova estetica, attraverso anche l’approfondimento delle nuove scoperte della Fisica.
Fra il cinema e il teatro quale mondo è più congeniale alla sua espressività?
Non posso scegliere, li amo entrambi troppo. Sono due mezzi diversi, nei quali, se la forma cambia, i contenuti potranno essere espressi in egual misura. Ma forse il teatro è stato il mio primo amore. Spero che entrambi non mi considerino infedele!
I talenti di oggi hanno qualcosa in meno rispetto a quelli che lei ha avuto la fortuna di conoscere? Oppure è l’industria cinematografica e televisiva a cercare qualcosa di altro?
Credo che l’industria cinematografica e la televisione oggi cerchino maggiore semplificazione, e purtroppo gli attori che corrispondono a immagini più commerciali tendono a contentarsi pur di lavorare, non solo in Italia però, anche in America alcune cose sono cambiate in peggio, al giorno d’oggi. Ovviamente esiste la possibilità di non cadere in quella trappola, ma, come ho già detto, oggi è ancora più necessario di un tempo stimolare il desiderio di approfondimento del proprio mestiere, che poi è lo studio della vita, propria e degli altri. Lo studio delle radici, in comunicazione con le radici altrui, lo studio delle predisposizioni dei caratteri, secondo i condizionamenti sociali. Più coscienza delle radici e del sociale si ha, di conseguenza più importanza si darà al teatro e al cinema. Qualcosa che ho scoperto facendo questa domanda a me stessa, e che periodicamente faccio a miei attori è: Riuscite ad immaginare come sarebbe il mondo senza teatro o cinema?
Non può esserci un mondo simile, ci sarà sempre una “forma” di teatro o di cinema, di espressività. Dai tempi preistorici, l’essere umano ha sentito la necessità di scoprire se stesso, i perché della nascita e della morte, del dolore e dei conflitti, di conseguenza di leggere la propria storia. Ha avuto inizio dai segni, dai graffiti nelle caverne, che si sono evoluti, poi integrati dai suoni, fino al linguaggio, all’osservazione della propria immagine e ancora al rito, al teatro, “lo specchio alla natura.” Finché l’essere umano avrà vita, esisterà ‘lo specchio alla natura”. Forse siamo in un periodo di transizione mentre siamo in piena decadenza. Ma proprio per questo c’è speranza che un numero di persone reagisca. È sempre stato così nella storia. Dopo la fine si ricomincia. Bisognerà vedere che tipo di fine ci sarà.
Cosa pensa della scena teatrale attuale? Come la immagina fra vent’anni, quando la generazione artistica sarà completamente rinnovata?
Quella attuale è forse più povera di un tempo, un po’ ingessata specialmente nel teatro istituzionale italiano, a parte qualche eccezione, come Emma Dante, la compagnia di Genova o spettacoli come quelli di Silvia Gallerano, un’attrice che si è coltivata nel mio laboratorio. O come Claudio Santamaria, o Sabrina Impacciatore, anche loro, attori del mio “Duse Studio”.
E sono sicura che ci siano altre compagnie a me ancora sconosciute che stanno lavorando per un teatro nuovo. Antico e Nuovo. Forse è questo il punto, scoprire nuove forme unendo l’antico col nuovo, invece di separarli.
I tempi provocatori, dissacranti, di Carmelo Bene o Enzo Moscato, del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, del teatro di Eugenio Barba, sono passati. In Italia per lo meno. Ma spero, anzi credo, che prima di vent’anni ci sarà un nuovo Rinascimento. Un’unione di culture, positivamente inevitabile, creerà una fusione di stili e significati, senza escludere l’uso della tecnologia, della fisica, della scienza. O la scienza della presa di coscienza.
Poco tempo fa ho scritto Il Regno uno sci-fi per il teatro che unisce l’umano al tecnologico, al virtuale, ambientato nel 2050. Spero di metterlo in scena l’anno prossimo.
Ho anche scritto cinque sceneggiature per il cinema. La prima che stiamo producendo, cominciamo a girare l’anno prossimo, è ambientata tra l’Italia e il Sud America e si intitola La Vida Loca. I personaggi parleranno in italiano, spagnolo, e inglese. In un cinema nel cinema, racconta le conseguenze di 500 anni di colonialismo occidentale attraverso la storia di una regista italiana, che vuole raccontare perché è stato assassinato l’uomo che amava, mentre girava un documentario sui coltivatori della foglia di coca in Colombia.
Quello per cui lotterò fino alla fine è promuovere, anche se dovessi urlarlo ai quattro venti, di ingrandire sempre di più gli schermi.
Ai miei attori in maniera assolutamente dittatoriale, senza una briciola di senso di colpa, dico che i film bisogna vederli al cinema! E che usare lo streaming è un crimine! Non credo che tutti mi ascoltino, ma qualcuno in più ci prova a uscire di casa.
Nel mio piccolo, continuo a fare propaganda per il Teatro e il “Grande Schermo”.
Il suo libro nasce da appunti notturni e trascrizioni di diari: vuol essere il punto di arrivo malinconico o un ricordo da cui ripartire verso nuove avventure?
Sicuramente, “La seconda che hai detto” per rispondere alla “Corrado Guzzanti”.
La struttura episodica le permette di escludere parti delle sue esperienze. C’è qualcosa che ha dovuto o voluto escludere dal libro?
Ci ho riflettuto, ma no, non credo di aver escluso o sentito di dover escludere qualcosa. Il flusso di coscienza ha trovato la sua continuità nel descrivere cosa mi ha aiutato a destrutturare la mia testa dura, e a crescere.
In fondo il libro parla di Ogni persona incontrata che nel bene o nel male mi ha aiutato a scoprire la vita, stimolato a studiare la mia storia e la Storia.
La fortuna di essere stata esposta alla cultura, alle transizioni storiche di tre continenti, come il Nord America, il Sud America e l’Europa, dall’infanzia e l’adolescenza fino ad oggi, unita alla passione verso il mio mestiere d’attrice, scrittrice e regista, mi ha anche involontariamente impedito di escludere esperienze o persone nei miei ricordi. Posso aver fatto un riassunto dei momenti di malessere senza descrivere un quotidiano minimale. Ma non credo di aver omesso episodi.
Oppure se ho dimenticato alcuni episodi, i ricordi più vividi riaffiorati sono quelli che mi hanno rivelato sempre di più una “ragion di vita”. Proprio perché, grazie a conflitti e trasformazioni nella vita reale, il mio sogno di un teatro e di un cinema, che parli della realtà, e non necessariamente in uno stile naturalista, continua a nutrire il bisogno di scrivere, fare regie, interpretare ruoli.
Se potesse ricominciare dal primo giorno, cambierebbe qualcosa della sua vita? Farebbe scelte diverse?
Non vedo come. No, non farei scelte diverse. Forse l’unica cosa che rimpiango è quando, al funerale di Lee Strasberg, ho sentito il bisogno lancinante di avere un bambino e mi sono trattenuta dal confidarlo ad Al, che mi si è avvicinato abbracciandomi in silenzio, dopo due anni che ci eravamo separati, di nuovo.
Poco tempo fa mi ha risposto quando gliel’ho confidato, che lo avrebbe voluto anche lui. Quello è il mio unico rimpianto.
Dovendo affidare il libro ad un regista per farne un film, chi sceglierebbe?
Forse Giuseppe Tornatore. O Nikita Mikhalkov.
E se le chiedessero il nome di una attrice che faccia il suo ruolo? C’è una interprete del presente o del passato a cui si sente più vicina?
Beh, difficile dire. Ho un tale misto di radici in me, nata a Roma, di padre Napoletano, la cui madre Italiana, era nata a New York, figlio illegittimo da padre inglese, mia madre figlia di un siciliano e un’avellinese, con due bisnonne materne francesi e forse un qualche trisnonno africano. Che dire?
Si. Forse un’attrice russa sconosciuta. Ho cercato d’immaginare, ma non ho trovato.
Non che non abbia un’ammirazione sconfinata, per attrici come Cate, Blanchett, Marion Cotillard, Juliette Binoche, la Liv Ullmann dei film di Bergman, Romy Schneider, Bette Davis, Kate Winslet, Alicia Vikander, Margherita Buy, Valeria Golino, ma nessuna di queste sembra avere il mio strano miscuglio di radici.
Si, un’attrice russa sconosciuta. Forse in Russia potrei trovare qualcuno.
Chissà chi sceglierebbe Tornatore? O chi, Nikita Mikhalkov?