INTERVISTA A SERENA SINIGAGLIA, REGISTA, DIRETTRICE ARTISTICA DEL TEATRO DI RINGHIERA, IDEATRICE INSIEME A SERGIO ESCOBAR DEL “PLAYFESTIVAL” PER COMPAGNIE UNDER 35
Dal 13 al 19 Maggio si terrà presso il Teatro di Ringhiera “Playfestival”: 1 gara, 12 spettacoli, 7 serate, 12 compagnie, 9 città, 2 giurie, 1 premio, oltre 70 artisti under 35. Il festival prevede l’esibizione di compagnie selezionate di attori under 35 i quali verranno giudicati da una giuria di critici web e una giuria popolare. Il premio: l’esibizione al Teatro Studio del Piccolo Teatro di Milano. In occasione del festival abbiamo intervistato Serena Sinigaglia, 40 anni, regista e direttrice artistica del Teatro di Ringhiera, ideatrice insieme a Sergio Escobar della manifestazione.
Come si è accesa in te la scintilla del teatro, se c’è stata, e che cosa è cambiato in te da quando hai iniziato come assistente di Vacis?
La scintilla del teatro non è stata una chiamata, un’illuminazione sulla via di Damasco, o una via vocazionale già prescritta. Non sono figlia di artisti, mio papà era ingegnere, mia mamma insegnante e poi casalinga.
Quando ho poi cominciato a fare teatro la scintilla si è inverata, ho scoperto che era il luogo dove volevo stare. Come ci sono arrivata? Per puro caso, per disperazione. Nel senso che io sono andata un anno prima a scuola, quindi ho preso la maturità a 18 anni anziché i consueti 19. Avevo quest’anno jolly da giocarmi, mi sono iscritta all’università, ma morivo perché mi sentivo implodere dal modello universitario. Mi ricordo che sono esplosa per un esame di storia medievale dove il professore voleva per il monografico un libro che si intitolava “La condizione dei contadini nella bassa Padania nel 1200”.
Ti rendi conto che tu non puoi chiedere a un ragazzo, a una ragazza di 18 anni di passare il pomeriggio sui libri leggendo la condizione dei contadini. Lì ho sentito un nonsense mentre, come direbbe Pasolini, avevo una disperata vitalità, quindi un disperato bisogno di sensi per la mia vita, un bisogno di sensi irrazionale, tipicamente da persona giovane che vuole fare esperienze che le restituiscano senso, energia. Allora ho cominciato a fare di tutto e di più.
Tra l’altro ho provato a fare la nuotatrice professionista. Poi un giorno mi sono chiesta: qual è l’unica che non hai ancora fatto, che non hai ancora provato che però sai per sentito dire che è un luogo di una certa intensità? L’unica cosa era il teatro. Quindi mi iscrissi ad un corso, capii che mi incuriosiva.
Tentai a 19 anni il provino alla Paolo Grassi, l’anno in cui Vacis coordinava il corso per attori. Feci il provino per regia, mi presero e lì comincio la mia avventura. Giorno dopo giorno sentivo che quello era il luogo dove volevo stare. E’ importante sentire che dove sei è dove vuoi essere, con tutte le imperfezioni e il desiderio di miglioramento che in ogni esperienza c’è.
Ti piace andare a teatro?
Mi piace di più andare al cinema. Andare a teatro mi costa fatica.
Però il teatro mi ha regalato delle esperienze di vita che nessun film, nessun romanzo, nessuna trasmissione radiofonica, televisiva, nessun quadro, nessun’altra forma artistica o di comunicazione mi può dare. Il teatro è faticoso perché è un’esperienza, come tutte le esperienze ti chiede la fatica di andarla a fare e di viverla e non sempre è piacevole come le esperienze di vita.
Il teatro è la qualità di relazione tra gli esseri umani, perché esiste nel qui e ora, è dal vivo, richiede che tu sia presente nello stesso spazio e tempo degli attori, ed è intenso e ha un’intensità extraquotidiana che ti scuote quando ci riesce; quando non ci riesce ti ammorba. Il teatro per me è il luogo degli estremi. E’ come la poesia, è il massimo.
Il più grande scrittore è un poeta. Ma pochi diventano poeti perché la poesia è la cosa più difficile al mondo, è la sintesi intensa e comunicativa.
Il cinema è invece più easy. Al cinema mi rilasso, più o meno mi diverto, mi coinvolgo, però c’è meno in gioco quello che c’è in gioco quando vai a teatro e quindi sia in senso positivo sia in senso negativo è un’esperienza forte.
Hai un maestro, una guida di riferimento?
Ne ho avuti tantissimi. Senz’altro tra questi uno che nel mio cuore occupa un posto speciale è Gabriele, mi ha formata quando avevo 19 anni, sai, era uno dei nostri insegnanti.
All’epoca sono stata fortunata, la gestione della Paolo Grassi era di Palazzi che ci diede l’opportunità di avere una pluralità di proposte. Quindi in quegli anni alla scuola girava Vacis, però girava anche Gigi Dall’Aglio, quindi tutta un’altra esperienza, un’altro bagaglio, girava Punzo, Solari, Navone. C’era una tale varietà di stimoli che in qualche modo che ci esortava a pensare che l’arte è sempre un discorso personale.
Ognuno deve poi sviluppare il proprio punto di vista, come diceva Peter Brook, facendo tesoro dell’altrui punto di vista. Non esiste un vate e una verità assodata, esiste la tua verità. E la capacità più o meno spiccata di veicolarla.
Quindi coltivare il tuo sguardo sul mondo, arricchendolo dello sguardo altrui, è stata secondo me una scelta vincente da parte di Palazzi, perché comunque alla fine siamo stati un’annata fortunata che ha trovato la sua via, cha ha lavorato.
Perché ci sono così poche registe donne?
La cultura riflette, come diceva Amleto, il significato profondo di una società, dov’è la società che la genera, la protegge o la osteggia. La cultura è lo specchio della società.
Ci sono meno donne ovunque ci sia un ruolo di potere, la presenza femminile si assottiglia vertiginosamente, sopratutto in Italia ma non solo in Italia. Manager di aziende: contro dieci manager uomini ce n’è una di donna.
Ruoli politici di sostanziale livello e differenza: una donna contro nove uomini. Ovunque.
Quindi non c’entra con una distribuzione dei talenti? Nel senso che le donne non hanno una grande predisposizione alla regia, alla gestione di un gruppo, a una visione ampia, sono rivolte più alla visione particolare che alla visione generale delle cose?
Direi che non sono minimamente d’accordo. Molto dipende dall’educazione che si riceve. Che cosa siamo come esseri umani al di là del genere che ci compete non lo sapremo mai definitivamente.
Il flusso dell’educazione religiosa e culturale è talmente alto che nessuno può permettersi di dire il genere donna è così e il genere uomo è così. Le tensioni culturali e l’educazione che riceviamo sono alte.
Se tu mi dici che le donne istintivamente non si rivolgono a ruoli di quel tipo, ti posso dire beh può essere perché forse sono state educate fin da piccole ad occuparsi del focolare, a curare l’aspetto dell’accoglienza, dell’aspetto della conservazione più che dell’innovazione. Sì può essere. Ma non so se questo è il genere femminile, portato fuori dal contesto culturale, cioè la natura della femmina, oppure un’educazione culturale e religiosa che ci porta a comportamenti di un certo tipo. In più con le lotte che le donne hanno condotto nel secolo scorso per ottenere più libertà, io credo assolutamente no.
Ci sarebbe da parlarne per ore: nell’istinto conservativo femminile di protezione, ci sono delle caratteristiche che gli studiosi di leadership attribuiscono al leader. Il leader deve infondere fiducia, deve dare l’impressione a un gruppo di essere sufficientemente forte per sostentarlo per anni.
Deve dare un senso di sicurezza e protezione, altrimenti la gente ti molla, poi in quest’epoca individualistica…Come vedi potremmo dire che alcune caratteristiche che nel nostro sistema culturale sono attribuite alle femmine funzionano per la leadership, non sono antitetiche.
E’ una frase troppo sommaria dire che le donne non sono portate.
Quali consigli concreti daresti a chi vuole iniziare il tuo percorso?
Di fare. Di non lasciarsi deprimere dall’assenza di soldi, di stimoli, dal fatto che nessuno ti consideri. Di prendere il tuo pugno di amici e di fare quello che hai nel cuore. Non farti fermare da niente e da nessuno. Viviamo in una società dove è così importante il ritorno, cioè tu fai una cosa solo nei termini in cui ti torna in termini di denaro, fama, visibilità al punto che quando pensi che queste conseguenze esterne tu non ce le hai allora rinunci. No, invece bisogna creare, bisogna fare, avere fantasia, essere allegri. Se hai il desiderio fallo. Poniamo che una giovane donna voglia cimentarsi nella regia teatrale: prende due o tre amici e discute che testo fare, lo fa nel salotto di casa sua e poi lo presenta alle amiche della madre e poi agli amici. Non bisogna farsi fermare, bisogna inventare, bisogna essere creativi senza paura.
Foucault ha affermato, in “Le parole e le cose”, di voler restituire al nostro presente “al nostro suolo silenzioso e ingenuamente immobile le sue rotture, le sue instabilità e le sue faglie(…) per vederlo muoversi di nuovo sotto i nostri passi”. Secondo te il teatro oggi riesce in questo scopo? O è diventato lo sfizio di una minoranza?
Rispetto a questa frase di Foucault la riscriverei esattamente al contrario. Adesso la realtà è percepita come rotta, infranta, distrutta, da un punto di vista etico, sociale, economico. Togliere la speranza del futuro è una mancanza enorme. Rispetto agli anni in cui scriveva Foucault, anni di grandi speranze, adesso sono anni bui, di assoluta mancanza di speranze. Dovere dell’arte è quello di creare nuove aspettative, restituire la joie de vivre e di futuro. La cultura dovrebbe sempre porsi là dove c’è la mancanza e la mancanza naturalmente cambia con il cambiare delle generazioni e degli anni. Qualcosa resta sempre uguale, la crisi si ripete ciclicamente, ma poi la qualità della crisi è diversa. Oggi ci sono in ballo questioni enormi. Possiamo pensare anche alla sparizione della razza se continuiamo a sfruttare l’ambiente in questo modo. Niente più acqua, gas nocivi. Penso che siamo in un’epoca in cui l’arte non debba distruggere ma costruire, restituire comportamenti di valore, mostrare quali azioni ci hanno portato fino a questo punto e quali possono ricostruirci.
E quindi per questo ti è venuta l’idea del festival, nell’ottica di questo progetto di rinnovamento?
Mi sono detta: ho dei buoni rapporti del Piccolo, perché non provare a fare qualcosa per gli altri innanzitutto e non per me stessa. In quanto io, oltre che regista, sono direttore artistico con un dovere superpartes. E quindi perché non cercare di fare una cosa che può essere utile e costruire un futuro per persone che fanno. Ce ne sono tante che fanno e non si lasciano intimidire dalle infinite varie insidie e ragionevoli motivazioni di scoraggiamento che ogni giorno si incontrano. In questo enorme sottobosco di creatività e passione, ho ideato Playfestival. Un festival dove queste compagnie, che altrimenti, per come è il sistema italiano, al Piccolo non andrebbero mai, trovano un canale per arrivarci. E’ divertente perché ne andrà solo una, ma si esibiranno tutte. Abbiamo una giuria blasonata di critici del web e non della carta stampata, quindi già si cerca di rompere i misteri e la burocrazia nefanda della cultura. E poi una giuria popolare che tra l’altro ha avuto una risposta che non mi aspettavo. Io pensavo: dobbiamo fare un festival in cui sia davvero il pubblico a scegliere, vogliamo un teatro non di élite, ma poi non coinvolgiamo le persone a partecipare a quelle attività. E allora ho detto: chiamiamo le persone, però dovranno guardarsi 12 spettacoli in 6 giorni. Sono arrivate tantissime domande. Lo dimostra il successo di Grillo, che altrimenti sarebbe stato impensabile, perché la sostanza politica è nulla dal mio punto di vista, il quale nasconde insieme al grosso disagio e al nostro non poterne più dei comportamenti orrendi della nostra classe dirigente, nasconde un desiderio di partecipazione che ancora una volta è una declinazione del desiderio di costruzione di cui parlavamo.
Non credo nel teatro d’élite. Io faccio teatro nella misura in cui credo sia uno strumento eccezionale per riflettere sulla realtà che possa fare del bene agli altri, sia da un punto di vista morale che culturale, e credo sia un diritto di qualsiasi cittadino di una società civile. Così svolgo il mio ruolo di direttore artistico al Teatro di Ringhiera. Il pubblico del teatro è trasversale: c’è gente che normalmente non vedi a teatro e gente che vedi a teatro.
Hai citato il fatto che ci saranno critici superpartes, critici del web. Credi in una maggiore libertà, in una maggiore offerta di prospettive e nella democrazia del web?
Le frasi assiomatiche mi spaventano. Innanzitutto bisogna vedere se si può credere nella democrazia. Non c’è niente di meno democratico della democrazia, come dice Lincoln nel film. O l’uomo è inadatto ad un sistema virtuoso come la democrazia quindi lo corrompe, oppure quel sistema “è il meno ingiusto dei sistemi”, come diceva Churchill.
Il web, presumo che anche tu la pensi come me, offre delle possibilità di partecipazione e libertà, ma anche delle manipolazioni enormi, cose false e tendenziose. Il fatto di coinvolgere i critici del web è perché hanno meno anni di usura con una modalità di porsi, quindi se vuoi è una scelta lievemente polemica, non per dire che loro sono belli, ma per dire che gli altri mi hanno stancata. Cioè che quelle modalità lì mi piacerebbe vederle rinnovate, e quindi mi rivolgo all’unico luogo dove c’è nuova vita, ma con questo non dico che questa nuova vita sia perfetta, peraltro è un fenomeno poco sviluppato. Mi incuriosisce. A dir la verità abbiamo chiesto anche a qualcuno che scrive sui giornali. Bisogna essere ragionevoli. In quest’epoca è importante dialogare senza per questo perdere il proprio preciso punto di vista.
Perché secondo te un amante del teatro o un curioso dovrebbe scegliere di venire a una serata del festival e non al Piccolo Teatro?
Perché è una cosa che non si è mai vista. Se è solo quella volta che va al Piccolo non lo convincerò a venire al Ringhiera perché si vede che va a vedere una cosa precisa. Se è un spettatore abituale può venire al festival perché incontrerà qualcosa di nuovo, dove ci sarà vitalità, urgenza, desiderio di incontro reale. Questi sono tutti ragazzi molto giovani che fanno teatro da anni senza una lira, con dedizione, con amore e riescono a proporre spettacoli con sacrifici enormi. Penso sia curioso. Quando qualcuno si sacrifica così tanto per riuscire a fare qualcosa, è qualcosa.
Penso che sia prezioso che il Piccolo abbia dato la sua adesione a questa iniziativa. Penso che sia il riscontro positivo di un incontro tra un’istituzione e una come me. Quando sono andata a parlarne a Escobar è stato subito entusiasta. Esiste il modo di creare nuove vie virtuose. Bisogna provare meccanismi di solidarietà. Viviamo in una situazione critica, siamo l’ultimo paese per investimenti sulla cultura. Perché farsi la guerra? Bisogna aiutarsi. Anche una piccola realtà come il Ringhiera può dialogare con il Teatro Piccolo, che permetterà alle compagnie di fare delle repliche al Teatro Studio dove altrimenti non arrivi. Sono orgogliosa di questa operazione.
Voi siete finanziati anche dal Ministero, dalla Provincia e dalla Regione Lombardia se non sbaglio?
La Regione sul lato pratico non ci dà niente. La provincia nell’ultimo anno è in smobilitazione quindi non ci ha dato niente. Noi siamo finanziati dal Comune e dal Ministero. Però per il Ringhiera paghiamo 50.000 euro l’anno. Gli aiuti che hanno fatto davvero la differenza sono stati i privati, la Fondazione Cariplo. Abbiamo ottenuto il bando Cariplo, il primo finanziamento per la residenza della compagnia ATIR nel teatro di Righiera e poi per il miglioramento della struttura organizzativa e tecnica. Quando finirà questo sostegno della Cariplo non so come faremo. Perché i soldi che riceviamo dal Ministero sono gli stessi dal 1998 nonostante la nostra attività sia triplicata e prima non avevamo un teatro e adesso ce l’abbiamo e si aggirano intorno a poco più di 60.000 euro l’anno. In teatro funziona il “sistema Italia”, ci sono storicità di finanziamenti incomprensibili, i criteri non sono trasparenti e chiari, alcuni prendono troppo, altri prendono troppo poco, insomma non regna di casa la giustizia, ma ancora una volta non bisogna farsi scoraggiare, bisogna comunque fare. Delle brave persone sulla tua strada le incontri.