In scena per due settimane al Teatro Anfitrione e ogni sera un tripudio di applausi per una delle opere più conosciute di Molière: IL Misantropo. A dirigere un cast foltissimo di attori è stato Marco Belocchi. Federico Larosa lo ha intervistato per noi
Il Misantropo di Molière, un testo classico, come mai ha deciso di portare in scena proprio questo?
Ogni tanto mi diverte portare un classico sulla scena, dopo tanta frequentazione di drammaturgia contemporanea, dopo aver messo in scena testi spagnoli, austriaci, inglesi, francesi, italiani, ogni tanto bisogna ritornare ad un classico. Molière l’avevo già messo in scena una quindicina d’anni fa con La scuola dei mariti, ora mi sembrava il momento per un’altra messa in scena.
Tra l’altro era forse qualche anno che non si vedeva sui palcoscenici italiani. Inoltre quando l’anno scorso con Eleonora Pariante cercavamo un testo che potesse valorizzare una coppia di protagonisti come me e lei, Il Misantropo ci è sembrato quello più d’impatto, divertente, senza essere una farsa (io non mi ritengo un attore “comico”) e soprattutto con una tematica ancora oggi incredibilmente attuale.
Dirige un cast di tantissimi attori, un’impresa non semplice, come ha affrontato tutto il lavoro?
Questione d’esperienza. Dirigo attori da oltre venticinque anni e talvolta, specialmente anni fa quando ci si potevano permettere produzioni più ricche, mi è capitato spesso di dirigere ensemble piuttosto nutriti.
Il segreto comunque è nel formare un cast giusto, dove gli attori siano compatibili fra loro, e infine creare un’armonia e una fiducia che è elemento imprescindibile, almeno per me, per il lavoro creativo. Non ho mai creduto a quei registi che creano tensioni per far salire l’emotività dell’attore.
Sono stupidaggini. E quando mi sono scontrato, da attore, con registi che ricorrevano a questi mezzucci, non è mai finita troppo bene.
E’ stato allievo di A.Trionfo, L.Ronconi, A.Camilleri, L.Salveti, F.Nuti, M.Fabbri, A.Corti, G.Moschin. E’ stata senza dubbio un’esperienza importante: cosa le hanno regalato?
Mi hanno insegnato davvero tanto. Erano gli anni in cui frequentavo l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico ed avere avuto insegnanti di questo calibro è stato certamente un privilegio.
Da tutti ho “rubato” qualcosa. Da Aldo Trionfo, che allora era il direttore, ho appreso le infinite possibilità di giocare con il teatro, tra cui quello di poter decontestualizzare i copioni e trasporli in altre situazioni per amplificare o virare il messaggio, poi l’uso della musica e delle luci.
Luca Ronconi, con cui tra l’altro ho collaborato per alcuni anni, aveva invece una metodologia di approccio al testo talmente profonda e logica che apriva talvolta a dei significati sconcertanti. Mi ha certamente dato una formazione solidissima.
Infine vorrei ricordare il meno noto tra i nomi che sono citati: Angelo Corti. È stato il mio primo vero maestro, mi ha letteralmente insegnato a stare sul palcoscenico; lui era un arlecchino, per anni è stato il sostituto di Soleri, e sul palco era capace di fare qualsiasi cosa con umiltà, con dedizione, con disciplina, con divertimento. Peccato che sia scomparso troppo presto.
Non solo regista ma anche attore in questo testo che debutta il 15 marzo all’Anfitrione? Ma preferisce recitare o dirigere?
In realtà mi piace fare entrambe le cose, anche se preferisco normalmente scindere i ruoli, ovvero o si fa l’uno o si fa l’altro. Ma poi talvolta la contingenza ti porta a scelte obbligate per i più svariati motivi.
E quindi in questo caso ricopro un doppio ruolo, che però è faticosissimo e non facile: ci vuole certamente una buona esperienza in entrambi i campi, recitativo e direttivo, avere un buon aiuto regista e un gruppo di attori affiatato, che non crei problemi.
Ha scritto anche lavori per il cinema.. e tra cinema e teatro? Qual è la sua passione?
Ho realizzato alcuni corti e scritto qualche sceneggiatura di lungometraggi, ne ho fra l’altro un paio nel cassetto che sto tentando di realizzare, con tutte le difficoltà del caso. Però è difficile dire se una passione prevalga sull’altra.
Certamente la mia carriera lavorativa mi ha portato a frequentare più i teatri e questo, vivendo in Italia dove si scindono in maniera abbastanza netta i due mondi come fossero antagonisti (cosa che non avviene nel resto del mondo!), ha limitato il mio rapporto col mondo cinematografico.
Rimane però intatta la passione. Come cinéphile amo il cinema muto, il noir degli anni quaranta, il western, (ho realizzato anche un corto in omaggio al genere dal titolo L’ultima ora), la nouvelle vague, il cinema dell’est europeo. Ecco, forse da fruitore preferisco il cinema al teatro.
Ha scritto un dramma storico “Novantaquattro” mai andato in scena? Perché? Potrebbe essere questo il suo nuovo progetto?
Non è mai capitata l’occasione. L’ho proposto anni fa ad alcuni attori di nome, ma nonostante l’apprezzamento non se ne è mai fatto nulla. Inoltre preferirei che lo mettesse in scena qualcun altro e per rimaner nell’ombra a fare l’autore.
Quindi non è un progetto immediato. Invece l’anno prossimo non è escluso che torni a frequentare un dramma giallo che non tocco da oltre quindici anni, quando dirigevo lo Stabile del Giallo.
E’ stato direttore artistico dello Stabile del Giallo, cosa ricorda di questa esperienza, le manca?
Tutto nacque nel 1999 quando l’allora direttore e fondatore dello Stabile del Giallo, Giancarlo Sisti, per motivi di salute, lasciò la direzione.
Con un gruppo di attori che gravita intorno a lui, rilevammo la gestione e io diventai direttore per un triennio, finché nel 2002 lasciai per vari motivi.
I migliori ricordi sono legati ad alcuni spettacoli memorabili che ebbi l’occasione di mettere in scena, tra cui L’uomo ombra, La scala chiocciola, Uno studio in rosso, Gli occhi della notte. Tutti molto diversi l’uno dall’altro, in cui ebbi l’occasione di sperimentare accorgimenti tecnici, luci particolari, o semplicemente ensemble di attori di ottimo livello.
Ma poi gli amori finiscono e decisi di andare altrove, in parte per non fossilizzarmi in un repertorio che, per quanto interessante, è limitato e poi perché, quando si costituisce un gruppo, è bene andare tutti nella stessa direzione e se ciò non accade è meglio cambiare strada.