Gabriele Lavia ha debuttato a Trieste il 3 maggio nella Sala Bartoli del Teatro Politeama Rossetti con Il sogno di uomo ridicolo di Fëdor Dostoevskij, in replica fino a domenica 20.
La prima volta che Gabriele Lavia mise in scena il racconto del celeberrimo scrittore era il 1981. Come ricorda egli stesso a fine spettacolo, all’epoca sul palco assieme a lui c’era Franco Però che oggi lo accoglie come direttore artistico allo Stabile.
Un legame quello di Lavia con Trieste e con il Teatro Rossetti che dura da molti anni. Stretto grazie alla realizzazione di spettacoli significativi come il Pellicano di Strindberg e il Riccardo III di Shakespeare, solo per citarne alcuni.
Il sogno di un uomo ridicolo è un testo caro a Lavia già dalla giovinezza, quando a 18 anni lo lesse per la prima volta agli amici. L’amore e la confidenza con cui lo interpreta oggi ne sono una prova. Il testo sembra nascere non solo dalle labbra del maestro nell’atto di pronunciarlo, ma direttamente dai suoi pensieri. Una compenetrazione tale da rendere il testo estremamente attuale e contemporaneo sebbene Dostoevskij l’abbia scritto nel 1876. Merito sicuramente dell’intramontabile scrittore russo, ma soprattutto dell’interprete d’eccezione che riesce a strappare le parole alla carta stampata per donarle al pubblico.
Tutto mi era allora indifferente
La storia è quella di un uomo ridicolo, un emarginato, non a proprio agio nella società in cui vive che nei suoi confronti e nei confronti della quale nutre solo indifferenza. Una notte decide di suicidarsi, complice una stella che risplende nitida nel cielo notturno, ma proprio mentre è immerso in quel pensiero si imbatte in una bambina che disperatamente cerca aiuto. Sua madre sta morendo non lontano da lì. Il protagonista la scaccia malamente preoccupato solo della propria sofferenza.
Tornato nella sua stanza non riesce, però, a non pensare a quella bambina realizzando di aver provato compassione per lei, turbato di scoprire che forse non tutto gli è indifferente. Davanti alla pistola carica alla fioca luce di una candela si addormenta distratto dal suo proposito e comincia a sognare. Sogna di essere morto sparandosi un colpo al cuore. Cosciente della sua nuova condizione sogna di essere sepolto e di essere liberato da un essere sconosciuto con fattezze umane che lo conduce su un pianeta sosia della Terra abitato da esseri puri che non conoscono la cattiveria e non lo considerano un uomo ridicolo. Ma la sua presenza corrompe questo eden, come un bacillo, guastando i suoi abitanti con la violenza e la sofferenza.
Il protagonista giunge così a una visione della verità: l’amore e la solidarietà sono l’unico mezzo per dissipare l’infelicità, ma egli, risvegliatosi dal sogno, è condannato a ripeterlo vanamente e ad essere dagli altri considerato pazzo.
“Sono un uomo ridicolo.
Adesso poi loro dicono che sono pazzo”
Una riflessione profonda sull’animo umano condannato alla sofferenza costretto in una metaforica camicia di forza indossata senza scampo da Lavia per l’intera durata dello spettacolo.
Un impedimento reale, che ne esprime uno sociale, connota da subito il protagonista come un pazzo, vittima della sua stessa demenza.
Spazi terreni e ultraterreni
La scenografia è composta da una poltrona alla voltaire e una scrivania sulla quale vi sono una candela e dei libri. Il pavimento è ricoperto di terra rossiccia. Questa incongruenza spaziale crea un cortocircuito immediato nello spettatore che non riesce a collocare questo luogo in nessun luogo. Un altrove che si presta ai viaggi onirici del protagonista.
La terra in cui Lavia appoggia i piedi scalzi e con la quale si sporca, appesantisce e abbrutisce la condizione aporica del protagonista. La terra è il punto di partenza e di arrivo di questo sogno, origine della vita e sua fine. Essa è la prova tangibile della rinascita dell’uomo ridicolo, stanco e sporco dopo il suo vagare. Conoscere la verità non sempre è agli occhi degli altri un atto di purificazione, di catarsi, ma motivo di discriminazione.
Un plauso, oltre all’allestimento, va al disegno luci di Michelangelo Vitullo che sottolinea con estrema eleganza i diversi momenti del monologo conducendo il pubblico in luoghi terreni e ultraterreni senza che la scenografia muti.
In questo viaggio onirico Gabriele Lavia è accompagnato da Lorenzo Terenzi che interpreta il doppio del protagonista al di fuori del sogno e al fantoccio della bambina con il fazzoletto rosso che domina il lato destro del palco.
Il baratro dentro e oltre i suoi occhi
Gabriele Lavia regala al pubblico una prova d’attore impeccabile, piena e senza retorica.
Il costume di scena, la camicia di forza, anziché rappresentare una trappola viene usato sapientemente in tutte le sue declinazioni di impedimento per apportare all’interpretazione una consistenza e un’emotività significativa. Lo spazio è gestito con coscienza e precisione, senza sbavature o eccessi.
Lo spettatore è catturato totalmente dall’interpretazione del testo durante il quale si trova inconsciamente a sorridere e soffrire insieme al protagonista.
Impressiona come Lavia riesca a rendere la condizione del folle soprattutto attraverso il suo sguardo, il vero focus dello spettacolo. Lo rincorriamo nei suoi pensieri, nei suoi ricordi e nelle visioni. Guardiamo assieme a lui il baratro dentro e oltre i suoi occhi. Lo seguiamo famelici nei guizzi e nella commiserazione. E più di tutto capiamo, comprendiamo la sua condizione.
Gabriele Lavia ha fatto suo questo sogno tanto da farlo vivere a chi lo guardi.