All’inizio di marzo è iniziata la tournée della commedia goldoniana “Il giuocatore”, per cui Roberto Valerio ha curato regia e adattamento. Lo spettacolo ha già raccolto un grande successo grazie alla brillante messa in scena dell’opera e alle eccellenti interpretazioni degli attori. In occasione dell’arrivo della commedia al teatro Bobbio di Trieste dal 14 al 17 marzo, ho avuto l’occasione di porre qualche domanda al regista Roberto Valerio.

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Diplomatosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, Roberto Valerio inizia la sua carriera come attore. Col tempo entra con successo anche nei panni di regista e poi di Direttore Artistico. Dal 2014 è diventato Direttore Artistico per l’Accademia Ludwig- Scuola di formazione professionale teatrale a Roma e dal 2023 è Direttore Artistico Prosa del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

In quanto attore e regista, Valerio si è occupato spesso di grandi classici teatrali e letterari. Da Sofocle a Ibsen, da Oscar Wilde a Pasolini, Roberto Valerio ha sempre affrontato mostri sacri del teatro internazionale con intelligente e raffinata creatività, indagando spesso l’animo umano con le sue debolezze e le sue imperfezioni.

I tuoi lavori spaziano da “Casa di bambola” di Ibsen a “Un marito ideale” di Wilde a “Tartufo” di Molière e molti altri. Ciò che si nota è che ti sei sempre concentrato sull’interpretazione di grandi testi teatrali e letterari, ponendo particolare attenzione all’umanità dei personaggi.

Io amo molto i classici per il semplice motivo che, per resistere nei secoli, sono testi che hanno dei germi e delle tematiche universali e di solito hanno una grande umanità. Parlano dell’essenza dell’uomo e delle sue varie sfaccettature, che sono l’odio, l’amore e l’umanità. Essendo attratto da queste tematiche, mi interessa molto riuscire a raccontare questi testi, che dal punto di vista della struttura drammaturgica risentono naturalmente del passaggio del tempo. Dunque la sfida è riuscire a parlare al pubblico oggi seduto in sala di questi temi universali che ci sono nei classici, ma tentando di farli diventare contemporanei anche dal punto di vista della struttura drammaturgica. Ad esempio, anche nel caso di “Il Giuocatore” ci sono stati un po’ di interventi dal punto di vista della struttura drammaturgica.

Come in “Il giuocatore”, spesso sembri attratto da personaggi imperfetti e a volte tormentati. Che cosa ti attira verso di loro?

Sono i personaggi più belli. Come attore so che in generale gli interpreti amano i personaggi dannati, cattivi, maledetti perché sono più interessanti e molto più affascinanti per il pubblico. È una calamita importante da questo punto di vista. In questo caso ciò che mi interessava raccontare era la dipendenza, nello specifico la ludopatia ma anche un po’ la dipendenza in generale.

Come hai detto tu, Goldoni riesce a dipingere un “ritratto di un’intera società, con le sue virtù e, soprattutto, i suoi vizi”. Crede che il teatro di Goldoni parli alle virtù e ai vizi anche del pubblico contemporaneo, seppur votato a dipendenze sempre più complesse?

Goldoni è veramente un gigante e credo che sia al livello di Shakespeare e degli altri grandissimi proprio perché riesce a scavare nell’animo umano e lo fa a suo modo, cioè con leggerezza, che non vuol dire superficialità. È un po’ la leggerezza della Prima lezione americana di Calvino, cioè la leggerezza in quanto qualità. Ecco, Goldoni ha questa grande capacità. Naturalmente è molto difficile da mettere in scena ed è difficile stare in equilibrio tra la leggerezza e il raccontare qualcosa di interessante, un po’ come si faceva nella grande commedia all’italiana del cinema, per cui l’Italia è diventata famosa nel mondo. Io amo molto la leggerezza e come viene impiegata nella grande commedia, che parla di tematiche importanti e amare, ma che riesce a farlo in modo “leggero”.

È vero che nel testo si parla soprattutto della dipendenza dal gioco delle carte, ma può essere anche, portandola ai nostri giorni, una dipendenza dalle droghe, dal sesso, dai social. Queste dipendenze fanno sì che le persone affette comincino come a vivere una realtà parallela rispetto a quella reale e quindi spesso si tratta di una realtà illusoria. È un aspetto che trovo molto molto contemporaneo e credo sia una tematica che ci riguarda molto. Ormai in tabaccheria si vedono persone anche anziane che non fanno altro che giocare a gratta e vinci o al lotto. Alcuni sono malati e stanno fin dalla mattina a giocare. Sono veramente delle malattie che rivelano una mancanza di qualcosa e il tentare di vivere appunto un’illusione o un sogno parallelo rispetto al reale.

Che cosa c’è nel gioco che attira grandi autori da Goldoni a Dostoevskij?

Te lo direbbe in maniera importante chi ha questa malattia. È una febbre che ti sale dentro, è irresistibile ed è appunto il motivo per cui tante persone poi diventano dipendenti e non possono fare a meno di quella droga, che in alcuni casi è la droga vera e propria, ma è una droga anche il gioco o i social; le persone ormai non riescono più a staccarsi dal telefonino. Sono delle droghe che diventano malattie importanti. Poi, nel gioco, spesso perdere è eccitante, dà grande piacere e ti fa tornare a giocare.

Goldoni usa spesso la comicità per trattare tragedie anche importanti come la ludopatia. È importante saper ridere dei drammi della vita, ma come si trova l’equilibrio tra comicità e serietà quando si parla di temi del genere?

Sì, è sicuramente la cosa più difficile. Bisogna avere la fortuna o comunque la capacità di lavorare insieme ad un gruppo di attori che riesce a fare questa cosa. Quindi è fondamentale la presenza di interpreti che abbiano questa capacità e che riescano a portare in scena la leggerezza, ma allo stesso tempo raccontando delle storie interessanti.

Infatti una cosa che colpisce nello spettacolo è che anche quei personaggi di solito considerati più marginali hanno un proprio spazio autonomo per esprimersi.

Spesso i personaggi “minori” vengono un po’ abbandonati e diventano quasi personaggi di servizio, mentre invece portano un’umanità di contorno veramente molto importante. Personalmente, anche quando recito, spesso mi ritaglio dei personaggi minori. Per esempio, io adoro i camerieri e farei sempre quelli. Quindi sì, da parte mia c’è sempre un occhio di particolare riguardo verso questi personaggi.


Com’è stato dirigere uno spettacolo con tanti attori in scena, ma conservando l’analisi interiore del protagonista e l’autonomia di ogni personaggio?

Io amo molto i classici dove ci sono molti personaggi. Il teatro si fonda essenzialmente su tre elementi, ossia testo, pubblico e attori, e ritengo che si debba tornare sempre più ad una centralità degli attori. Il teatro è fatto dagli attori, quindi io li amo e amo mettere in scena opere dove ci sono molti interpreti. Fosse per me, anche se il periodo storico non lo favorisce, io farei spettacoli da dieci attori in su, perché veramente trovo che gli attori in scena siano fondamentali e il perno di uno spettacolo, soprattutto quando sono bravi interpreti.



Come hai già detto, ciò che ti attira nei classici è anche l’universalità delle tematiche trattate. Secondo te in cosa consiste l’universalità di questa commedia di Goldoni?



In “Il giuocatore” ci sono personaggi in cui ognuno può riconoscersi anche se sono passati secoli. L’animo umano rimane sempre identico nel profondo, nonostante passi il tempo, perché si nutre sempre degli stessi vizi e delle stesse virtù. L’animo umano ama, odia, fa la guerra, che poi sono i grandi temi del teatro. Sono temi universali che vanno al di là del tempo ed è per questo che continuiamo a metterli in scena, tra Shakespeare, Goldoni, Molière e molti altri.

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