Una cena tra amici, nell’appartamento, stracolmo di libri e oggetti, di una coppia di intellettuali (Betta e Sandro) che ospitano l’amico d’infanzia Claudio, eccentrico musicista, e Paolo (fratello di Betta), estroverso e un po’ cafone agente immobiliare, con la moglie Simona, coatta di Casalpalocco con velleità letterarie, in attesa del primo figlio. La serata, in apparenza uguale a mille altre, viene guastata da una domanda ingenua: “come chiamerete vostro figlio?”. La risposta aprirà un vaso di Pandora di risentimenti e ipocrisie sepolte da anni sotto la coltre del perbenismo borghese.
Francesca Archibugi torna al lungometraggio dopo 8 anni, con una commedia che si candida a essere un notevole successo di pubblico; come d’altronde fu “Cena tra amici”, il film di cui il lavoro della Archibugi è il remake, e con cui De La Attelliere e Delaporte (registi del film oltre che autori della pièce teatrale “Le prenom” da cui era tratto) fecero incetta di premi Cesar nel 2012.
A essere più precisi, non di esatto remake si tratta. Perché non solo il nome che la coppia decide di dare al futuro figlio è differente, e adattato alla realtà italiana, ma anche tutta la vicenda, comprese le back story dei personaggi, sono fortemente ancorate alla storia, recente e passata, del nostro Paese. E se questo può essere considerato un tentativo intelligente di evitare il paragone con un enorme successo, rappresenta invece la pecca maggiore del film. Si perde così, infatti, quel non so che di leggero e soavemente boulevardier che rendeva il film francese soffice e variopinto; il tentativo di riempire la vacuità (solo apparente peraltro) della vicenda appesantisce tutto lo script, tra flashback inutili e didascalici, oltre che fortemente irrispettosi dell’intelligenza dello spettatore, e un flashforward imbarazzante (e stupisce il fatto che responsabile di tutto questo sia uno sceneggiatore esperto come Francesco Piccolo). Il macchiettistico farsi carne dei personaggi, più parodie ritagliate nel cartone che reali icone del nostro tempo, rende poi il film un pedante trattatello di sociologia spicciola, da bon vivant radical-chic.
La decisione di soprassedere alla teatrale unità di tempo, luogo e azione, che in questo caso avrebbe contribuito alla immedesimazione nei personaggi, rende il ritmo del film altalenante, a volte sonnacchioso. Citofonare Polanski, please, per sapere come lasciare 4 attori in una stanza per novanta minuti e trarne un risultato cinematograficamente di gran classe (vedasi “Carnage”, la cui trama peraltro è molto simile a quella di “Le prenom”)
Si ride, certo, e come non si potrebbe con un testo di partenza così ben congegnato? Ma i cinque attori, tutti di grande bravura (la Golino su tutti), a volte si lasciano andare a gigionate che paiono derivare da una mancanza di direzione e una predilezione per un’improvvisazione teatrale a volte penalizzata dal montaggio. E anche la regia momenti interessanti (movimenti di macchina fluidi, ambienti a volte claustrofobici) ad altri fortemente didascalici (i giri intorno alla tavola o ai personaggi che danzano cantando sono la sagra del “già visto”).
Non è questa, a nostro avviso, la strada migliore per adattare un testo teatrale per il cinema, né è necessario italianizzare una vicenda che, a partire dal nome stesso del nascituro, è di per sé stessa universale.
Regia: Francesca Archibugi ; Tratto dalla pièce teatrale “Le prénom” di Alexandre De La Attelliere e Matthieu Delaporte ; Con: Alessandro Gassmann – Valeria Golino – Luigi lo Cascio – Rocco Papaleo – Micaela Ramazzotti ; Sceneggiatura: Francesca Archibugi – Francesco Piccolo; Montaggio: Esmeralda Calabria; Fotografia: Fabio Cianchetti; Musiche: Battista Lena; Prodotto da: Fabrizio Donvito – Benedetto Habib – Marco Cohen – Andrea Occhipinti; Produzione: Indiana Production – Lucky Red (in collaborazione con: Motorino Amaranto – Rai Cinema – Sky); Distribuzione: Lucky Red; Durata: 94 min.; Italia, 2015
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