Non esiste un’unica verità. Ci è sempre stato detto. Eppure non l’abbiamo mai accettato. Come cacciatori affamati, spesso, corriamo durante il giorno e la notte speranzosi che quegli occhi o quell’evento siano sintomatici di un’unica risposta per restituire a noi solo serenità. Non paghi, però, ci rimettiamo in cammino perché mai sazi.
Fino a quando arriva improvvisamente una “verità” (non certo unica) a cercare noi e a cambiare, o meglio, a svelare la nostra vera natura, a dare una percentuale di risposte alle nostre domande, a mettere a tacere la nostra frenesia e a lasciarci attoniti di fronte alla vastità del mondo e del suo imprevedibile.
L’essere umano si muove con sicurezza, raccolto nel paltò di un mondo ordinato, perfetto, con carte da firmare e altre da sporcare in un mondo borghese, fatto di pregi, di azioni scontate, come scontato aver il piacere di sedurre e abbandonare con garbo e classe; come scontato può risultare l’avere una famiglia da andare a trovare con scadenza; come scontato è ricavarsi un proprio spazio per raccogliersi nella piacevole solitudine da raccontare, poi, agli amici più cari.
Tutto per Rodolfo, il protagonista di Il giorno di cui non si parla – opera prima dell’avvocato Nikita Placco, edita da Licosia Vertigo – è perfettamente normale fino a quando, come a effetto domino, non irrompono situazioni che sgretolano le proprie certezze, quelle che per lui risultano verità. Se ne aggiungono altre che aprono il suo essere con irruenza e allo stesso tempo con dolcezza.
Come divinità dall’alto appaiono donne, chi dal passato, chi nel presente, ciascuna diversa dall’altra ma tutte aventi a che fare con il protagonista stesso, che su diversi vassoi svelano dei segreti/missili che vanno a inficiare sulle decisioni di Rodolfo, sulla sua veglia e sul suo sonno.
Il protagonista, a un certo punto, appare come un antieroe, vero perché umano, mosso dalla continua ricerca di una quiete che, improvvisamente viene a mancare e che comporta un blocco nella stesura del suo prossimo romanzo. Si rivela essere mortale a trecentosessanta gradi con le proprie fragilità, momenti di incertezza, di insonnia, di conferme e, talvolta, sconfitte accettate. Rodolfo si ama proprio da questo momento.
L’autore lo designa con candore, con delicatezza senza arroganza. Quasi un ero romantico, gentile e piegato dal dolore, senza nasconderlo neppure al padre. L’ascolto di se stesso lo salva, fissando il bianco di una pagina, e più, da riempire. La pagina di una vita a cui dare forma, su cui gettare, come un pittore su tela, i propri quesiti trovando (forse?) qualche risposta.
Il comune denominatore dell’intero romanzo è la vita stessa, vita che appare come quella dell’avvento, quella troncata, quella desiderata. È la vita che Nikita Placco racconta come esortazione nel soffermarsi sulle fragilità di queste, ammirarle, accarezzarle come fiori da curare, da ascoltare, fiori piccoli e indifesi, quelli che necessitano di più cure per poi essere tramutati in potenti querce nel corso del cammino.
La scrittura in terza persona, permette al lettore di entrare con garbo e delicatezza ne “la stanza” di Rodolfo, quella che fuori non riesce a manifestare, inizialmente.
La narrativa di Placco restituisce immagini, colori forti sotto i soli di una Gubbio e di una Roma per niente austera ma dolce e sinuosa come una donna che sa accogliere. Una scrittura ricca di descrizioni compìte, queste ultime, con dettagli minuziosi al punto da far apparire il lettore, per esempio, commensale alle cene dal protagonista preparate. Il tutto con un ritmo leggero, senza l’utilizzo di vocaboli aulici e ricercati.
Proprio perché Il giorno di cui non si parla appartiene a tutti noi.
Rodolfo altro non è che la proiezione di un nostro essere, un uomo che decide di fermarsi e di affidare alla scrittura i suoi interrogativi sciolti nelle parole.