Il gatto, in programma dal 3 all’8 dicembre al teatro Rossetti nella traduzione e adattamento di Fabio Bussotti del romanzo omonimo di Georges Simenon, ci racconta la storia di un matrimonio in cui è l’odio a unire due consorti.
Marguerite, di origine piccolo borghese e dai modi fin troppo affettati e Émile, ex capomastro rozzo e consumatore di sigari e di bicchieri di vino, ormai non si parlano più da anni, ma mantengono una corrispondenza insensata basata su dei bigliettini con i quali si ricordano a vicenda i motivi del proprio astio.
L’interesse di questa situazione, logorante sia per chi ne è vittima sia per chi ne è spettatore, sta soprattutto in una conseguenza paradossale dell’odio, quella di creare un vincolo forte tra due soggetti, di tipo quasi simbiotico.
Marguerite e Émile hanno caratteri opposti ma decidono di sposarsi comunque, forse per timore di una vecchiaia solitaria, dopo che entrambi hanno perso i rispettivi partner dei loro matrimoni precedenti. Il problema è che nessuno dei due riesce a “vedere” l’altro, a cercare di comprenderlo, mentre entrambi si impegnano rinfacciarsi reciprocamente questa incapacità.
Durante tutto lo spettacolo non smettono di tormentarsi facendosi dispetti meschini (tipo fingere di aver messo del veleno o sputare di nascosto nella minestra dell’altro) che trascendono fino al livello dell’omicidio (Marguerite avvelena il gatto di Émile e quest’ultimo, per vendicarsi, uccide il pappagallo di Marguerite). Ad un certo punto sembra che l’impasse venga superato nel momento in cui Émile si decide a fuggire con l’amante, ma ben presto le cose tornano come prima: l’anziano torna a testa bassa da una Marguerite trionfante e ancora più tronfia di prima (anche se pochi secondi prima era in preda alla disperazione per l’assenza del marito).
L’intera pièce teatrale sembra girare attorno ad una domanda: Cosa tiene veramente uniti Marguerite e Emile? Forse, paradossalmente, in questa lotta per farsi comprendere dall’altro, i due trovano finalmente un punto in comune che fa sì che i bigliettini pieni di insulti si trasformino in richieste d’attenzione, o addirittura segrete lettere d’amore. L’odio diventa buffo e perde credibilità quando si trasforma in una missione quotidiana da portare a termine tradendo così il suo obiettivo principale: l’allontanamento dall’oggetto odiato. A qualcosa del genere aveva accennato Gabriel García Márquez in Cent’anni di solitudine: l’odio di Amaranta per la sua sorellastra Rebeca è così intenso da dare l’impressione di essere amore:
Come il colonnello Aureliano Buendía pensava d’istinto alla guerra, così Amaranta pensava a Rebeca. […] Nessuno si rese conto in casa che Amaranta stava tessendo allora uno stupendo sudario per Rebeca. […] Aveva deciso di restaurare il cadavere di Rebeca, di dissimulare con paraffina le devastazioni del volto e di farle una parrucca coi capelli dei santi. […] Elaborò il piano con tanto odio che rabbrividì all’idea che non ci avrebbe messe meno cura se lo avesse fatto per amore, ma non si lasciò stordire per la confusione, e invece continuò a perfezionare i particolari così minuziosamente che giunse ad essere più che una specialista, una virtuosa nei riti della morte.
Anche se si potesse parlare di amore nel caso di Émile e Marguerite, si tratterebbe di un sentimento ottenuto ad un costo esorbitante, ovvero quello di una lotta quotidiana ed estenuante che priva il soggetto della propria libertà. Il gatto porta l’attenzione su questa situazione misteriosa e la interroga senza fornire risposte, ma suscitando molto interesse anche grazie all’interpretazione convincente di Alvia Reale nei panni di Marguerite e di Elia Schilton nel ruolo di Émile.
I due attori riescono a mantenere viva l’attenzione del pubblico con i loro battibecchi ed improperi, lasciando a volte che sia il testo di Simenon a parlare, citandone frammenti interi in terza persona, mai abbandonati a loro stessi, ma accompagnati dalla loro interpretazione.
Lo scenario, una stanza della casa della coppia (probabilmente la cucina), dà un senso di claustrofobia molto intenso, al punto che Émile e Marguerite sembrano quasi dei ragni prigionieri in una scatola, mentre noi spettatori, come degli scienziati, li osserviamo con il microscopio cercando di decifrare il loro misterioso comportamento.