Il caso Braibanti, una perfetta tecnica artistica al teatro Torlonia

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Viviamo in un Paese che dimentica la sua storia. Per questo compie scelte politiche, sociali e umane sempre più spesso nel solco di un terribile passato di cupa dittatura e rigorismo. Eppure un fronte di resistenza resta aperto, sempre.

È una compagine che vive la cultura e l’impegno non come immagini patinate o insulse ospitate televisive, bensì come lavoro quotidiano,sacrificio e rapporto immediato con l’altro, il pubblico, le istituzioni, le paure, i tabù. Sono molti ancora, per nostra fortuna, questi esempi: più o meno illustri, più o meno noti.

Lo spettacolo di Massimiliano Palmese per la regia di Giuseppe Marini che è tornato in scena ancora una volta, dopo il debutto nel 2011 all’interno della rassegna “Il Garofano Verde”, è una manifestazione illustre di questo spirito di resistenza morale e umana.

Il merito è da ascrivere, innanzitutto, al testo polimorfo – pubblicato da Caracò editore (Bologna, 2017) – che ricostruisce con precisione, ma senza cronachismi noiosi il vergognoso processo di plagio ai danni dell’intellettuale Aldo Braibanti. Non è uno sviluppo unitario, cronologicamente coerente, piuttosto un assemblage di situazioni e pensieri che i protagonisti e gli altri personaggi riportano.

In questo è interessante notare come la tecnica di scrittura richiami anche la tecnica artistica prediletta da Braibanti, una sorta di linguaggio nel linguaggio. L’effetto che si ha, ascoltando, è quello di un documentario in cui si è scelto di “montare” solo alcuni passaggi e non tutto il materiale a disposizione.

Il caso Braibanti
Il caso Braibanti

Così le lettere di Braibanti costituiscono una ipotetica “voce fuori campo” mentre le diverse situazioni sono accostate con il chiaro intento di fare emergere la volontà della destra vetero fascista e cattolica di condannare ogni idea di sinistra, ogni margine di innovazione, ogni tentativo di cambiamento ai danni di una figura sacrificabile, principalmente perché omosessuale.

Anche la sinistra dovrebbe fare i suoi conti con gli errori storici e imparare da quanto ha compiuto o, peggio, non ha compiuto in quegli anni e in anni più recenti. Ma l’Italia è un Paese che dimentica. Per fortuna l’equilibrata regia di Giuseppe Marini non dimentica nulla del provincialismo italiano degli anni ’60 e lo declina in una varietà continua e magicamente mutevole di registri linguistici e dialettali.

Non si ferma a questo dato verosimile, ma idealizza la vicenda dei due protagonisti – il Braibanti e il giovane Giovanni Sanfratello. Marini fa sì che i due non si incontrino mai con lo sguardo e siano vicini, fisicamente uniti, solo in un attimo, nel finale:come una fotografia. Non basta, la regia fa di più: i due attori sono filtro delle emozioni di altre figure del racconto, li incarnano attraverso la loro lente di ingrandimento, trasformandoli così magicamente da testimoni piatti inpersone a tutto tondo pur nei limitati interventi.

Due su tutti colpiscono di più: la madre di Sanfratello e il pubblico ministero. La prima è incarnata con verosimiglianza e ironia, ma non è macchietta, bensì donna e madre che porta con sé le sofferenze di una scelta filiale che non può comprendere dai limiti angusti del suo provincialismo cattolico. Il secondo è invece un “tacchino rigonfio” pomposamente orgoglioso del sistema in cui opera, grazie al quale la ragione o il torto – manzonianamente – non sono mai frutto di un’analisi a posteriori, ma di una presupposizione di partenza.

Schiacciati dall’interesse politico e dalla cieca certezza di una classe sociale dominante, benpensante,ipocrita e grottescamente decadente, Aldo e Giovanni saranno privati della libertà di azione dalla clinica e dal carcere, ma il loro pensiero non potrà essere fermato. Colpisce che, nonostante il tema dell’omosessualità, né il testo né la regia vogliano soffermarsi troppo su questo.

Sarebbe un semplice richiamo “pubblicitario”. Il tema c’è ed è chiaro da alcune affermazioni. Il tema c’è ed è palese dall’emozione dei due. Ma la questione è altra: la libertà di scelta in ogni campo dell’esistenza umana. Fabio Bussotti e Mauro Conte vivono le schegge di vita di tanti uomini e donne coinvolti nella vicenda con una profondità e una veridicità da lasciare stupefatti.

Interpretano scivolando da un accento a un altro, da un dialetto a un altro, da una posa all’altra,senza soluzione di continuità, fluidi e potenti con le voci a volte rotte dal dolore, altre trattenute dalla rabbia. Restano spesso immobili, come incastrati in gesti semplici, quotidiani eppure eterni, sinonimo di una vicenda già accaduta ma sempre in divenire: il processo alle idee, la condanna della libertà.

L’Italia è un Paese che dimentica la sua storia perché, forse, non ha il coraggio di ricordarla. Perché non riesce a colmare la distanza di alcune contraddizioni: noi non abbiamo mai avuto leggi contro gli omosessuali eppure viviamo in un Paese in cui dichiararsi omosessuali è ancora oggi un problema;noi viviamo in un Paese in cui la costituzione e le leggi ci concedono libertà di pensiero, espressione ecc. eppure, a causa della manifestazione di un’opinione, si può essere indagati per oltraggio a corpo politico; noi viviamo in un Paese pieno di situazioni al limite e preferiamo infilare la testa sotto la sabbia, senza dimenticare che il culo resta fuori.

Occasioni come il “Caso Braibanti”,andato in scena al Teatro Torlonia per la stagione del Teatro di Roma,dovrebbero provocare una riflessione e, forse, riaccendere uno spirito di dignità e di resistenza che abbiamo lasciato da parte troppo a lungo.

Non si può dimenticare un’ultima menzione artistica: la pregevole presenza di Mauro Verrone che accompagna dal vivo con il sax i dialoghi fra i due, un contrappunto musicale limpido e struggente.

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