E’ andato in scena al Teatro Marconi per la seconda volta in pochi mesi di distanza, uno dei testi più emozionanti di Gianni Clementi: Il Cappello di Carta.
C’è un motivo ben preciso che porta molti registi a attori italiani a riportare sul palco questo testo: emozione, divertimento e ricordo si intrecciano armonicamente nella storia ambientata nel 1943 a Roma.
Il sipario si apre e il pubblico viene immediatamente catapultato nella povertà di quegli anni. Un tavolo, delle sedie, un letto. Luci soffuse, è notte. Ma non per il nonno che preoccupato dei bombardamenti gira per la casa svegliando i familiari. Si ride dalle prime battute nonostante il contesto sia fortemente caratterizzato dalle brutture di una tragica guerra.
In scena sette bravissimi attori: Armando Puccio che interpreta il nonno Carlo, Stefania Graniero nei panni di Camilla, mamma di Candido (Daniele Locci), e Bianca (Valeria Spada); accanto a lei il marito Leone interpretato da un convincente Fabrizio Pallotta, Simona Mancini che veste i panni della zia paterna Anna, e Marco Pratesi che presta il volto all’amico Remo.
Colpiscono, in un contesto drammatico, le divertenti battute e il forte realismo, elementi che caratterizzano l’intero spettacolo. Felice Della Corte firma una regia pulita e impeccabile e porta in scena in un unico atto l’intero periodo che va dall’estate 1943 all’inizio dell’inverno dello stesso anno.
Pochi mesi in cui la vita di questa modesta famiglia cambia radicalmente. E ci porta per mano Della Corte nella miseria e nella disperazione di questi uomini ma presta attenzione e sottolinea i passaggi più leggeri regalati da quella romanità unica e tipica di chi non si è arreso neppure di fronte ad un rastrellamento. È piacevolmente strana la sensazione che si prova. Sai di trovarti su una comoda poltrona ma dopo pochi minuti riesci a vedere il Verano, i palazzi crollati dai bombardamenti, le strade del Ghetto, perfino la pianta di pomodori a cui Leone tiene tanto.
Ti ritrovi in quel tragico anno e ti chiedi come avresti reagito, cosa avresti fatto. E non puoi altro che lasciarti cullare dai sogni di questa famiglia. Una famiglia unita seppur composta da personaggi diversi tra loro che si scontrano, si uniscono nei loro drammi e sogni: si pensa al matrimonio per la zia Anna, alla fine della guerra, al futuro di un neonato che piange nell’altra stanza, ma il messaggio registrato di una radio d’epoca riporta tutti alla realtà di quei tempi. Nomi come Benito Mussolini fanno percepire l’impotenza dei protagonisti di fronte ai fatti che accadono fuori da quelle quattro mura. Ci provano ad andare avanti, ma non c’è lavoro, non c’è futuro, possono solo assistere da spettatori alle conseguenze della guerra e possono solo riportarli nei loro drammatici racconti, sino al finale che lascia attoniti e commossi.
Ottimo il risultato. Si intuisce già durante la messa in scena quando risate e commozione travolgono il pubblico in sala. Complice della buona riuscita sono le atmosfere figlie di un mix perfetto di musica e colori scelto con cura e che racconta l’amore e la professionalità per questo lavoro che spesso ci piacerebbe vedere.