Nell’intimo spazio della Sala Bartoli del Teatro Politeama Rossetti è in scena dall’8 al 13 gennaio Il canto della caduta della multiforme performer Marta Cuscunà.

Una scenografia metallica a due piani, cui sopra campeggiano dei corvi meccanici e al centro della quale si accende un schermo luminoso, occupa il cuore del palco. La struttura che ricorda delle conformazioni rocciose, con linee essenziali e dorate, connota l’atmosfera accogliendo lo spettatore in un luogo sacro e dissacrato, inviolabile e violato allo stesso tempo.

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Marta Cuscunà entra in scena umile ma con la determinazione di chi ha urgenza sincera di raccontare una storia che riguarda tutti. Prende posto nelle quinte del complesso corpo d’acciaio e presta – senza risparmiarsi – braccia, gambe, voce e anima alla propria opera.

Il canto della caduta racconta l’abominio della guerra.

La storia prende le mosse dal mito di Fanes, un ciclo epico del folklore ladino che narra del tempo  in cui ci fu la caduta del regno pacifico delle donne e l’affermazione di quello violento e sanguinario degli uomini. E si lega, nella elaborazione della Cuscunà, a teorie archeomitologiche sostenute da celebri studiose, tra cui quelle di Marija Gimbutas. L’archeologa e antropologa lituana nel saggio Il linguaggio della Dea riporta alla luce le tracce della centralità della donna nelle società e nei culti dell’Europa neolitica. Tali tracce provengono proprio, ma non solo, da leggende e miti come quello ladino del popolo di Fanes.

I corvi e i bambini-topi

La narrazione così come la scena è divisa in due parti. Da  un lato i corvi e dall’altro i bambini-topi.

I corvi assolvono al ruolo di coro come nella struttura della tragedia classica e a loro è affidata la narrazione a ritroso della guerra. Osservatori privilegiati e interessati mostrano con le parole la mattanza, ragionando su questa irriducibile attitudine degli uomini.

I bambini-topi sono gli unici sopravvissuti alla carneficina.

“Ho cercato di immaginarli e li ho visti nascosti sotto teste di topo, come i bambini disegnati da Herakut, duo tedesco di streetartists che ha lavorato in diversi campi profughi e zone devastate dalle guerre.”

Si nascondono nelle viscere delle montagne per non essere uccisi, soffrono la fame e l’abbandono. Vivono quiescenti in attesa del tempo promesso della pace in cui il popolo di Fanes potrà finalmente rinascere. Nel frattempo si consolano evocando il tempo di Amargi, del “ritorno alla madre”, della “libertà”.

L’animatronica

Marta Cuscunà dà vita a tutti questi personaggi in un intenso one-woman show. Lei sola è interpretazione, drammaturgia e regia di uno spettacolo che si inserisce nella tradizione del teatro di figura con innovazione e originalità.

L’altra grande protagonista de Il canto della caduta è infatti l’animatronica a cura della scenografa Paola Villani. L’idea di sfruttare questa tecnologia, solitamente appannaggio dell’industria cinematografica, per rinnovare l’idea del teatro di figura è senza dubbio vincente e affascinante. Vincente perché la spettacolarità della commistione uomo-macchina dal vivo torna a far appassionare il pubblico ormai insensibile a certi generi di intrattenimento. E affascinante perché Marta Cuscunà si dimostra così abile nel padroneggiare i pupazzi meccanici della Villani da scomparire dietro ad essi. Lo sforzo tecnico di recitare animando per mezzo di joystick meccanici i corvi o nel creare composizioni realistiche con i puppets a grandezza naturale dei bambini-topi è notevole, ma Marta Cuscunà riesce a non farlo percepire e incanta il pubblico.

In attesa di Amargi

Lo studio, sia per quanto riguarda la vastità del materiale bibliografico sia per la complessità della messinscena, varrebbe da solo la pena (o meglio il piacere) di assistere a questa performance. Ma quello che convince senza riserve è la capacità di quest’artista di attualizzare con intelligenza il materiale teorico e scenico.

Il canto della caduta è una preziosa occasione per ritrovarsi bambini – bambini-topi di Fanes, forse – in attesa di Amargi.

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