In scena al Rossetti un grande classico goldoniano, I Rusteghi, per la fedele e attenta regia di Giuseppe Emiliani: in platea un pubblico variegato, per età e interessi, che attende di vedere un’altra edizione di questo capolavoro della drammaturgia italiana.
Non è la prima volta che I Rusteghi approdano al Politeama in tutta la loro aspra ed esilarante durezza “salvadega”: basta pensare all’ultima messinscena del 2011, per la regia di Gabriele Vacis, che ne aveva offerto una versione riadattata nel testo e innovativa nell’allestimento scenico. Nella regia di Emiliani invece è lampante una fedele quanto accurata attenzione alla tradizione a partire proprio dal linguaggio, conservato nella sua irresistibile dialettalità fino alla cura per gli abiti che rappresentano la visione esteriore degli usi e dei costumi della Venezia del tempo.
Lo stile di vita morigerato imposto dalla rudezza dei mariti si rivela, nel corso dello spettacolo, assurdo e limitato: le convinzioni datate sono la dimora impenetrabile e inattaccabile che si rispecchia nei loro abiti e nell’aspetto dimesso e castigato delle loro donne che subiranno però un cambiamento evidente nel secondo atto.
I rusteghi per l’autore sono incarnati proprio in questi protagonisti burberi e a tratti misogini, chiusi nella loro limitata quanto vuota visione del mondo: attraverso di essi Goldoni denuncia l’involuzione dell’icona originaria dell’onesto, avveduto e responsabile borghese veneziano delle prime commedie, rappresentato dal mercante Pantalone. Al suo posto è subentrato il pater familias che si atteggia a protettore della morale, una maschera di comportamenti tiranni e scorbutici, talmente ottusi da risultare sbalorditivi quanto esilaranti all’occhio esterno dell’“omo civil” Riccardo, amico della Siora Felice. La donna con la sua forza espressiva, la libertà di pensiero e la sottile quanto efficace retorica del linguaggio è la portavoce dell’autore, la ponderata e allegra provocazione del Teatro. Sior Riccardo, vivace e ricercato nell’espressione verbale e nel costume, è il rappresentante esplicito del pubblico sulla scena che assiste incredulo ma anche profondamente contrariato al “teatrino” assurdo, messo in piedi dai rusteghi.
Goldoni dipinge con sapiente e ironica maestria la scorza dura di questi individui che, ancorati alla loro visione del mondo, finiscono per diventare delle bestie e si rendono maschere di loro stessi, vuoti nella sostanza, ridicoli nell’apparenza, soprattutto quando organizzano il matrimonio combinato tra i loro figli, imponendo che questi non possano incontrarsi prima del rito. Sarà proprio questo ennesimo sopruso a far agire le mogli, capitanate da Siora Felice per ordire un piano che permetta ai promessi sposi di vedersi.
Nel secondo atto i vestiti delle donne si fanno audaci e vezzosi, irrompono i colori, subentra la libertà di espressione estetica: tale trasformazione però non è solo esteriore, come accade quando ci si traveste per il carnevale. Il cambiamento d’abito rivela un significativo rinnovamento in quello che è “l’abito mentale”: Siora Felice, autrice della “commedia nella commedia” per far conoscere i due ragazzi, è riuscita a convincere le donne e, grazie all’arringa finale, a far sì che tutto andasse per il meglio.
Nonostante la burla e il lieto fine, tuttavia sembra che nella sostanza l’animo rustego e retrogrado rimanga vivo nei mariti. Un po’ come avviene nella scenografia: pannelli che scorrono e che, a seconda della loro posizione, rivelano scenari diversi che in realtà rappresentano scorci della stessa scena immutata. Allora il teatro è veramente un rito sociale divertente ma inutile quanto la retorica di Siora Felice?
Goldoni mostra, suggerisce ma non impone: in questo non è assolutamente “rustego” ma moderno e vero ed è per questo che consiglio di andare a teatro e cogliere l’occasione per divertirsi e riflettere.