Jude, americano, e Mina, italiana, si incontrano per caso nel bagno di un ristorante cinese di Manhattan.

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Si piacciono, vanno a vivere insieme, si sposano, e lei rimane incinta, quasi per errore. Nasce un bimbo bellissimo, adorato dalla nonna materna e dai neo-genitori.  In questo quadretto idilliaco si inserisce però una minacciosa frattura: Mina è sempre più ossessionata dalla purezza e fa crescere il bambino secondo le proprie “sensazioni”, anzichè seguire i dettami della pediatria tradizionale. Jude cerca di comprenderne i motivi, ma senza grande convinzione. Al posto della gioia, si sedimentano lunghi e seri silenzi; al posto della fiducia, i sospetti. Solo la scoperta che il bimbo è in pericolo di vita farà esplodere il conflitto, ma forse il punto di non ritorno sarà già stato raggiunto e superato.

L’adattamento del romanzo di Marco Franzoso “Il bambino indaco” vede nuovamente il regista romano Saverio Costanzo alle prese con persone in situazioni limite; non sono più i palestinesi confinati in casa propria di Private, né il ricco borghese in cerca della fede di In memoria di me, e forse risultano più simili ai due ex adolescenti tristi de La solitudine dei numeri primi; di diverso, hanno la loro realtà: un mondo vero e luccicante come Manhattan e un oceano azzurro davanti alla spiaggia di Coney Island dove specchiarsi e andare a cercare il sole, un lavoro importante che potrebbe dare stabilità e coraggio. Ce n’é abbastanza per costruire una vita felice; ma non è così.

Mina è alla ricerca di qualcosa che forse Jude non le può dare, e che lei stessa è incapace di chiedere, o forse perfino di rappresentare. Quell’amore perfetto,  quella purezza magica che sembrerebbe la base normale di ogni rapporto di coppia, per giunta coronato dalla nascita di un figlio e dalla scoperta di una nuova “madre” in una suocera un po’ sopra le righe ma molto affettuosa, Mina li trova solo dentro di sé,  nelle sensazioni, nel fideistico lasciarsi andare a una sorta di magia primordiale.

La distanza da un mondo pieno di contaminazioni e di negatività (che rende così moderno e vero il personaggio di Mina) diventa siderale perché lasciata all’ostinata difesa di una pretesa naturalità ancestrale.  E a Jude non rimane che essere spettatore, abbandonando le lunghe braccia su una poltrona, o chiudendo sempre di più il suo volto in un broncio muto.

Media e spettatori, probabilmente, insisteranno a rappresentare Hungry hearts come un film anti-vegano. Non è così: il veganesimo di Mina è la risposta, sbagliata non tanto nell’essenza ma nella modalità, al suo desiderio di protezione, una sorta di tentativo del personaggio di darsi delle norme di comportamento, sbagliandone l’applicazione. Hungry hearts, come sottolinea anche il titolo, è invece un film sull’amore come sentimento estremo, animale, in grado di distruggere e non solo di costruire. Un film sull’incomunicabilità in questi anni tempestosi. Un film sugli errori che commettiamo, credendo di essere nel giusto e di poter così salvare noi stessi e le persone che amiamo.

Costanzo segue le dinamiche malate di Jude e Mina chiudendoli in un interno claustrofobico, rappresentato con luci fredde e angolazioni distorcenti, a volte più simile a un antro malefico che al nido d’amore di una giovane coppia, e si conferma come uno dei pochi registi italiani con uno sguardo d’autore internazionale.

La coppia protagonista, Adam Driver e Alba Rohrwacher, vincitori, con questa interpretazione, della Coppa Volpi alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia , dà corpo alle inquietudini dei personaggi, ma un plauso va anche a Roberta Maxwell, la ambiguamente luciferina madre di Jude.

Regia: Saverio Costanzo; Sceneggiatura: Saverio Costanzo; Tratto dal romanzo “Il bambino indaco” di Marco Franzoso (Einaudi); Con: Adam Driver (Jude) – Alba Rohrwacher (Mina) – Roberta Maxwell (Anne); Fotografia: Fabio Cianchetti; Montaggio: Francesca Calvelli; Musiche: Nicola Piovani; Scenografia Amy Williams; Produzione: Wildside – Rai Cinema; Distribuzione: 01 Distribution; Durata: 109’; Italia, 2014

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