Comincia con il botto (letteralmente) il nuovo lavoro della compagnia Generazione Disagio, andato in scena alla Fucina Culturale Machiavelli di Verona con il titolo Karmafulminien, uno spettacolo dove non c’è spazio per il pudore.
Anche per chi è già familiare con i toni coloriti della Compagnia infatti, l’inizio di questa nuova commedia prende alla sprovvista, presentando subito sul palco i nostri tre protagonisti – Luca Mammoli, Enrico Pittaluga e Graziano Sirressi – completamente nudi e mani strategicamente piazzate.
Sono i ‘figli di puttini’, angeli dell’ultimo cerchio, incarnatisi in corpi umani, per portarci un lapidario messaggio: gli angeli custodi sono morti e tutto ciò che c’è rimasto sono loro, angeli di seconda categoria senza nessuna garanzia di salvezza o protezione.
Anzi il loro ruolo sembra quello di fare da filtro ai cieli, stando ad ascoltare e assorbendo le incessanti lamentele umane, sottoposti alla negatività e alla tossicità degli uomini, costretti ad ascoltare le imprecazioni e le preghiere più superficiali.
Non sono angeli dalla voce celestiale né tanto meno dall’aura luminosa, ma piuttosto quelli che troviamo sui santini, che appendiamo ai cruscotti o che spruzzano acqua dalle fontane. Sono angeli fru-fru e aconfessionali, che ci parlano di una spiritualità laica che, come gli angeli custodi, sempre essere ormai morta negli uomini moderni.
Lo spettacolo prende spunto dal precedente Dopodiché stasera mi butto ripartendo la rivisitazione della preghiera del finale, solo che questo volta sono gli angeli a pregare per gli uomini.
Insieme al Padre Nostro nichilista, tornano anche alcuni temi cari a Generazione Disagio: il racconto di ciò che vedono intorno nella loro generazione, un senso di smarrimento e negatività che se in Dopodiché era raccontato attraverso i drammi professionali e sentimentali, in Karmafulminien vive attraverso una riflessione sull’individualità e la spiritualità.
E come Dopodiché, questo spettacolo diverte.
Grazie soprattutto alla caratteristica mescolanza di tono basso e alto, dell’unione di un testo verboso ed evocativo a comicità goliardica, spesso anche fisica.
Ma se questa è una nota stilistica ormai caratteristica e vincente della Compagnia, non si può fare a meno di notare una minore organicità rispetto allo spettacolo precedente, colpa forse di alcune gag troppo lunghe e di una cornice narrativa più complessa, ma per questo più complicata da seguire.
Su tutto però brillano i momenti in cui si da spazio alla parola, che è ricca, tagliente e ricercata – tanto nei monologhi quanto nei cori. Momenti riflessivi che spiazzano lo spettatore e lo mettono di fronte a un muro di parole, spesso in rima e piene di divertente cinismo.
Alla fine tutto si chiude con la gag più geniale di tutte, e mentre si ride e già si inizia l’applauso l’ultima battuta ancora rimbomba nella testa del pubblico.
Se dico una stronzata un angelo muore