Gabrio Gentilini – già protagonista di musical di successo quali La febbre del sabato sera e Dirty Dancing – prosegue il proprio percorso di attore con una nuova sfida: è infatti entrato a far parte del cast di The Boys in the Band, opera teatrale del commediografo americano Mart Crowley, in scena a Milano, Spazio Teatro 89, dal 13 al 19 giugno.
Lo spettacolo debutta in Italia nel cinquantesimo anniversario dalla nascita del Movimento LGBT (New York, giugno 1969), grazie alla traduzione e all’adattamento di Costantino della Gherardesca, che lo produce con il regista Giorgio Bozzo.
Conosciuto in Italia con il titolo Festa per il compleanno per il caro amico Harold – film del 1970 diretto da William Friedkin e interpretato dagli stessi attori che decretarono il successo della commedia a Broadway – lo spettacolo racconta lo spaccato di vita di un gruppo di otto omosessuali newyorkesi e un ospite casuale – che si dichiara eterosessuale – durante una festa di compleanno che si trasforma in un feroce gioco al massacro.
Il titolo dello spettacolo (The Boys in the Band) a cosa fa riferimento?
Si tratta in realtà di una delle tante citazioni che si fanno nella pièce, riferita a una canzone di Judy Garland. C’è addirittura chi sostiene che i moti di Stonewall siano esplosi proprio in concomitanza con la sua morte, avvenuta il 22 giugno 1969: ovviamente, questa è una sorta di leggenda, ma Judy Garland resta indubbiamente un’icona per la comunità LGBT.
Perché questa pièce è molto importante?
The Boys in the Band è stata la prima commedia teatrale a tematica gay, che descriveva molto bene gli stereotipi legati a certe tipologie di esseri umani. In un momento storico come quello che stiamo vivendo, in cui un certo tipo di politica sembra voler riportare la società a una sorta di Medioevo, è importante ricordarci chi eravamo come esseri umani e cosa è importante proteggere per evitare di tornare a quel periodo. Sono stati fatti enormi passi avanti dal 1969, l’omosessualità viene più accolta, ma c’è ancora molto da fare, come dimostrano i numerosi e spiacevoli fatti di cronaca cui assistiamo quotidianamente.
Quali sono i temi affrontati nello spettacolo?
La nevrosi di questi omosessuali che hanno difficoltà ad accettarsi. Una cosa che mi ha colpito molto è quanto fosse normale, in quegli anni, girare con gli ansiolitici in tasca. Ovviamente, le stesse situazioni si ripetono anche adesso, ma già allora erano percepite come normali. Lo spettacolo evidenzia l’importanza che attribuiamo alle sovrastrutture imposte dal contesto sociale in cui viviamo, che creano delle prigioni, rafforzate da noi stessi.
Cosa puoi anticipare del tuo personaggio?
Donald è un ragazzo che sente su di sé un costante senso di fallimento e dunque comincia a farsi delle domande, cercando di risolversi. In quel momento della storia, cui assiste il pubblico, lui arriva a Manhattan per un appuntamento con il suo psicanalista, che gli dà buca. Quindi, si reca, come stabilito, a casa di Michael, che quella sera ospiterà la festa di compleanno di Harold, a cui in realtà Donald non è stato invitato, perché con Harold in realtà sono solo conoscenti e nemmeno si stanno troppo simpatici.
La pièce ha un ritmo piuttosto serrato…
Molto serrato. Il pubblico assiste a 90 minuti di vita di questi personaggi, senza altri riferimenti temporali. C’è un sarcasmo feroce, per cui la pièce comincia con i toni della commedia per poi evolvere sicuramente in dramma.
Come sei entrato in contatto con questo testo?
Già da quando avevo collaborato con Giorgio Bozzo per il progetto “Sorelle Marinetti, lui mi parlava di questo testo e del suo desiderio di metterlo in scena, rivelandomi che, qualora si fosse presentata la circostanza, mi avrebbe contattato per offrirmi un ruolo. Ed è andata proprio così: per una volta, non ho dovuto fare troppi provini, lo ammetto.